Molta tensione, molti dubbi (che nascono dalla tensione), qualche difficoltà… 

Da una parte i docenti che temono di sbagliare, di non attenersi in modo rigoroso alle prescrizioni fissate dalla normativa ministeriale e, prima ancora, di non aver fornito ai propri alunni gli strumenti necessari per affrontare adeguatamente la prova; dall’altra i ragazzi che si presentano, la mattina dell’Invalsi, con un’aria un po’ meno baldanzosa rispetto ai precedenti scritti pure impegnativi: sono inquieti, agitati. Forse avvertono l’imbarazzo degli adulti preoccupati in primis dei “loro” Dsa (disturbi specifici dell’apprendimento): che dispongano degli strumenti compensativi di rito, come ad esempio l’MP3 con relative cuffie per ascoltare i testi del fascicolo di italiano e poi la calcolatrice per affrontare “attrezzati” i quesiti del fascicolo di matematica; ma poi i prof temono anche per la sorte di quei ragazzotti fin troppo svegli, ma tremendamente distratti; e di quelli ineccepibili, ma così perfezionisti, che a furia di “pensare” quale sia la risposta giusta, finiscono quasi sempre, ahimè, per… sbagliarla.



In realtà, gli insegnanti di classe c’entrano ben poco, almeno in questa fase finale. Sono costretti – un po’ a malincuore – ad eclissarsi completamente: durante le assistenze infatti è vietata la presenza del docente di materia per prevenire qualsiasi rischio di supporto o suggerimento; anche i quesiti, da due anni a questa parte, vengono formulati o predisposti in cinque differenti percorsi così da ridurre al minimo, tra i ragazzi, le “opportunità” di  scopiazzare.



Questa prova, insomma, continua a far paura, ad essere temuta, specialmente perché apre una serie di incognite circa la valutazione finale dell’esame di Stato conclusivo del primo ciclo di studi. 

E tuttavia, scriveva qualche giorno fa proprio da queste pagine il professor Chiosso, “l’esame costituisce anche una prova con se stessi e cioè la dimostrazione di essere capace di superare un ostacolo che richiede impegno, costanza e anche sacrificio. Queste parole sono quasi scomparse nel vocabolario educativo del nostro tempo” e aggiungeva che “la scomparsa di prove e difficoltà da superare può costituire un forte limite allo sviluppo della personalità“.



Niente di più vero! È a 13 anni infatti che per la prima volta i nostri ragazzi sono chiamati a misurarsi e a verificare come “se la cavano” nel sostenere un esame. E stiamo parlando di un esame dove: i professori sono tutti già noti, con le materie si è avuto il tempo di familiarizzare, i contenuti del colloquio interdisciplinare sono stati preventivamente concordati in un percorso articolato e ormai sempre più spesso elaborato con strumenti multimediali sofisticati.

Che cosa c’è allora che preoccupa questi preadolescenti dai volti timidi e dagli sguardi sfuggenti che dietro forme di aggressività e di arroganza, mascherano una sconcertante fragilità insieme ad una sconfinata ed incolmabile solitudine? 

Quest’anno agli esami non ho una classe mia. Ricopro il ruolo di presidente di commissione. In questa veste, sono tenuta a leggermi le relazioni triennali che i colleghi della scuola in cui sono stata nominata hanno steso con paziente cura e scrupolosa precisione. Mentre le scorro attenta e incuriosita, risento l’eco delle parole di papa Francesco, lo scorso 10 maggio nell’incontro con il mondo della scuola: “Andare a scuola significa aprire la mente e il cuore alla realtà, nella ricchezza dei suoi aspetti, delle sue dimensioni. E noi non abbiamo diritto ad avere paura della realtà! Se uno ha imparato a imparare, − è questo il segreto, imparare ad imparare! − questo gli rimane per sempre, rimane una persona aperta alla realtà!“.

Ecco dunque il segreto, così lo chiama il Papa: apertura alla realtà e imparare ad imparare… È forse questo l’anello debole della catena che certe paure e certe insicurezze drammaticamente evidenziano? I contenuti si conoscono, la preparazione è solida, il voto di ammissione non lascia dubbi, ma ad una prova come l’Invalsi spesso – forse ancora troppo spesso − si capitola o si rende comunque meno della media dei propri standard. 

150 minuti di impegno non stop, costituiscono dunque uno stress che i nostri ragazzi non sono in grado di sostenere! Molte voci, anche autorevoli, ritengono che occorra ripensare l’esame di terza con i suoi cinque scritti, uno dei quali è appunto la prova Invalsi, cui si aggiunge il colloquio interdisciplinare anch’esso estremamente impegnativo perché li sottopone ad uno stress emotivo che sarebbe preferibile evitare… 

Mi domando: non rischiamo, così facendo, di passare la vita a proteggere i nostri figli da possibili frustrazioni, ad ammortizzare i colpi con i quali dovranno, prima o poi, fare i conti? Forse per crescere – come ancora ci ha detto il Papa –ci vuole uno sguardo.Non si cresce − infatti − da soli“; “è sempre uno sguardo che ti aiuta a crescere”.

Non quindi evitare l’impatto con la realtà per paura, ma lanciare i nostri ragazzi  nell’universale paragone finalmente sotto la paternità di uno sguardo amico.

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