La traduzione è il modo in cui un lettore o un ascoltatore di una certa lingua, dopo aver compreso il significato preciso di ciò che in quella lingua viene affermato o trasmesso nella forma orale o scritta, lo riformula in maniera adeguata in un’altra lingua ripesandone le categorie concettuali sottese all’espressione verbale e riflettendo sulla lingua per una riformulazione grammaticalmente corretta nella lingua di arrivo: è ciò che Jakobson chiamerebbe “traduzione interlinguistica”.
Spesso gli studenti, dopo aver fatto un’analisi preventiva e paziente della frase a livello grammaticale con quel che Miraglia definisce “vivisezione chirurgica”, tentano di tradurre per capire e, compreso il senso generale, ritraducono in forma più corrente e corretta quanto compreso, in una lingua italiana (un sorta di “pidjin”?) che viene chiamata “versionese” oppure “traduttese”.
Ma se ciò può valere per gli studenti più capaci, per lo più, a sentire certe lamentele dei docenti stessi di greco e latino, per la maggioranza dei ragazzi la “traduzione” rimane non solo un misero e spesso ridicolo tentativo di decrittazione, ma anche un meccanismo nefando a metà tra enigmistica e sudoku linguistico, gioco di cui per altro esiste in rete un volume apposito.
Secondo De Mauro, «il locutore idea una frase o, nei casi più complessi, un insieme organizzato di frasi che esegue poi, parlando o scrivendo, con l’intento di far capire il senso che intende trasmettere. Come ogni ricettore, il traduttore è a questo senso che in ogni caso guarda ed è questo senso anzitutto e comunque che deve affidare a una frase o a un testo che egli idea, a sua volta, nel target language».
Ma per “capire il senso generale” di un testo scritto in lingua greca o latina, occorre, naturalmente, una solida conoscenza e una sicura padronanza della lingua di arrivo e, per una buona traduzione, una adeguata competenza della lingua di partenza. Non tutti sono altrettanto bravi come Gaspare, il protagonista del romanzo Una barca del bosco di Paola Mastrocola: il ragazzino, essendo più preparato rispetto ai suoi compagni, dato che con la professoressa Madame Pilou aveva già affrontato con impegno lo studio della lingua, stufo di eseguire esercizi ripetitivi e noiosi, chiedeva al professor De Gente, docente della nuova scuola di Torino dove si era appena trasferito dalla Sicilia, quando avrebbero affrontato una versione. Ma la risposta del professore era dilatoria, poiché era ancora presto: forse alla fine dell’anno ne avrebbero affrontata qualcuna.
Sembra che ci sia insanabile dissidio tra didattica scolastica e ricerca accademica, eppure mai, come in questi tempi, l’interesse per la riflessione sull’insegnamento è ritornato alla ribalta.
Uno dei contributi che persegue questa fruttuosa sinergia tra queste due strade è quello di Renato Oniga, professore di letteratura latina nell’Università di Udine, che sottolinenando le potenzialità didattiche di una grammatica latina descritta secondo la ricerca più aggiornata in prospettiva generativista in un’introduzione caratterizzata da rigore scientifico ma da chiarezza espositiva, scrive: «Una teoria linguistica formale giustifica inoltre l’analisi grammaticale come il necessario preliminare alla traduzione. Tradurre in modo consapevole, significa risalire da una frase in una data lingua di partenza alla sua struttura grammaticale più astratta, per poi ridiscendere alla forma di superficie della lingua di arrivo. La traduzione presuppone sempre un ragionamento linguistico non banale, estremamente ricco e complesso, che può rimanere implicito, o si può cercare di rendere esplicito attraverso gli strumenti dell’analisi grammaticale».
Il docente di lingue classiche, che opera ogni giorno a contatto diretto con i ragazzi che si avvicinano al greco e al latino a livello linguistico e a livello culturale, sa bene che è “difficile” insegnare le lingue antiche come L2: lo ricorda Agostino e lo sapeva bene Rouse nel Novecento.
Nel decimo capitolo del saggio che raccoglie le esperienze di Umberto Eco come traduttore e autore tradotto, è citato un pensiero di Gerhard Ebeling, sulla definizione di traduzione gadameriana come “dialogo ermeneutico”: «L’origine etimologico di hermenéuo e dei suoi derivati è controversa ma rinvia a radici col significato di ‘parlare’, ‘dire’ (in connessione col latino verbum o sermo). Il significato del vocabolo va cercato in tre direzioni: asserire (esprimere), interpretare (spiegare) e tradurre (fare da interprete). Si tratta di modificazioni del significato fondamentale di ‘portare alla comprensione’, di ‘mediare la comprensione’ rispetto a differenti modi di porsi del problema del comprendere: sia che venga interpretato un fatto mediante parole, un discorso mediante spiegazione, un enunciato in una lingua straniera mediante una traduzione».
Eppure, forse la consapevolezza che i docenti di lingue antiche, pur nella difficoltà di ogni giorno, appartengono a una millenaria categoria non solo di phylakes di sapore platonico, ma anche di coloro che hanno svolto e svolgono un ruolo essenziale nella storia umana, dovrebbe spingerci − e lo dico, anch’io, da docente − a raccogliere la sfida del terzo millennio per “salvare” il patrimonio dell’antichità nel mondo della globalizzazione, continuando a dare senso a un mondo lontano che ancora rivive in mezzo a noi: «Si tratta di un insieme di contenuti che deve inevitabilmente solo privilegiare il rapporto fra passato e presente, ma che deve partire dal presente: dalla contemporaneità, ma anche dalla propria collocazione geografica del nunc e dell’hic» (Pretagostini).
Se la traduzione era un concetto ben assimilato nella cultura latina, oggi ancor di più essa, dopo gli studi delle discipline sviluppatesi nel corso del Novecento, ha assunto un significato più profondo, conducendo anche a ripensare la sua utilità e la sua valenza nella prassi didattica nell’apprendimento delle lingue classiche.
Leggendo il profilo biografico tracciato da Svetonio, studioso di grammatica, per il beneventano L. Orbilio Pupillo (Gram, 9), diventato celeberrimo fino a noi per essere stato plagosus nei confronti del poeta Orazio, mi sono imbattuto in una curiosa informazione: Orbilio scrisse un’opera dal titolo greco Perialogos (Il grande sciocco, sottointeso genitore), dove raccoglieva le lamentele e le offese dei genitori di certi suoi alunni. E non accade ancora oggi quando i ragazzi prendono un’insufficienza più o meno grave in una traduzione di una versione o vengono rimandati a settembre?
Nelle Indicazioni nazionali degli obiettivi specifici di apprendimento relative al settore disciplinare “Lingua e cultura greca” dei nuovi programmi del liceo classico, lo studente, al termine del percorso di studi, «dovrà aver scoperto la traduzione non come meccanico esercizio di applicazione di regole, ma come strumento di conoscenza di un testo e di un autore, fino a immedesimarsi in un mondo diverso dal proprio e a sentire la sfida di riproporlo in lingua italiana».
La ricerca teorica può offrire validi spunti al docente per far sì che il giovane del terzo millennio possa sentire la gioia della scoperta del mondo antico e del senso ricco che ancora oggi possiamo gustare nella inattualità e/o nella permanenza della “classicità” nel mondo di oggi. Con una buona conoscenza della grammatica greca e latina − si intende − senza dimenticare quella della lingua italiana, al di là del nostro “greco quotidiano”, come evoca un titolo di Janni del 1994.
Alla luce della riflessione metodologica, innervata sulla ricerca teorica e corroborata dall’esperienza dei docenti e più vicina alla sensibilità degli adolescenti del terzo millennio, si può considerare la traduzione, a livello ermeneutico, una prassi didattica, un’insostituibile pratica culturale, certamente complessa, nella misura in cui è complessa la ekphrasis caratterizzata da poikilia, di un mondo scomparso che rivive in un universo linguistico-culturale, mostrando la propria misteriosa alterità e reclamando, del tutto legittimamente, l’avvincente esplorazione: è un’operazione cognitiva complicata la traduzione con cui il ragazzo porta un mondo lontano e “altro” in un mondo a lui più vicino e reso ancora più globalizzato e senza limiti dalla tecnologia. Un po’ come i calzari alati di Ermes, che simboleggiano la capacità di carpire, ermeneuticamente, le parole alate della lingua greca, senza che la traduzione diventi una banale metagraphe, che potremmo definire una “tranverbalizzazione in italiano detto gergalmente scolastichese”.
A buon diritto, la traduzione può essere considerata un necessario “dispositivo pedagogico di apprendimento” (è l’espressione è di Silvana Rocca), dove però la traduzione scolastica sia ri-contestualizzata in un senso più ampio di quanto sia nella consuetudine quotidiana dei docenti.
Lo dico e lo ribadisco nei seminari di aggiornamento ai colleghi che insegnano greco e latino: tradurre è una quinta abilità, dopo leggere, scrivere, ascoltare e parlare!
In fondo, credo che sia fruttuoso portare avanti anche nella didattica delle lingue classiche il filone inaugurato da Renzo Titone in un volume da titolo paradigmatico: “Il tradurre: dalla psicolinguistica alla glottodidattica” del 1998; e infatti io sono convinto che in qualche modo, nella crisi dell’istruzione classica che stiamo attraversando, un crocevia di sinergia e di innesto tra le didattiche delle lingue classiche e moderne sia necessario, pur nel rispetto delle specificità del greco antico e latino.
Insomma, animati forse da ottimismo, l’augurio, a conclusione di questa riflessione, per l’insegnamento delle lingue classiche nel nostro Paese che gode di lunga e gloriosa tradizione e per i giovani traduttori che si sono cimentati nella prova di greco nell’a.s. 2013-2014, è il seguente (permettendomi di parafrasare una celebre sentenza di Girolamo): non solum verbum e verbo, sed etiam sensum exprimere de sensu.
Una parola, un senso… di un mondo antico, capace, ancora, di comunicarci qualcosa di eterno!