Sì, i nostri ragazzi escono a 19 anni dalla scuola e si avviano incontro al mondo come sonnambuli che camminano di notte su un cornicione. Posano i piedi su un terreno che non conoscono. Della storia economica, sociale, politica, culturale e intellettuale del ‘900 intercettano soltanto qualche coriandolo. In incontri con i maturandi che ho tenuto recentemente in un liceo che va per la maggiore, di cui taccio qui il nome per carità patria, l’intreccio domande/risposte è stato il seguente: cos’è l’Assemblea costituente? Boh. Chi era Aldo Moro? Mutismo assoluto. Quando è stato costruito il Muro di Berlino? Nel 1989. De Gasperi? Sturzo? La Cassa del Mezzogiorno? Sempre: boh. Quando è stata fatta la Costituzione? Nel 2002 da Berlusconi. Il ’68? Il ’77? Piazza Fontana? Cosa sono i Balcani? Boh.



Il panorama è decisamente desolante. La ragione è che i ragazzi non sono interessati? Al contrario! Non appena uno racconta loro la storia e le storie, si fanno silenziosi e attenti, ti guardano come se scoprissero il mondo per la prima volta. La perdita della storia è una tragedia intellettuale ed educativa di cui sono vittime da anni le generazioni giovani. Quali sono le cause? Partiamo da lontano. Quando, alla fine degli anni 90, Luigi Berlinguer propose di rendere obbligatorio lo studio del ‘900, gli si rivoltò contro una canea. Certi esponenti cattolici scatenarono una campagna capillare contro quella proposta, in occasione delle elezioni europee del 1999, sostenendo che essa portava dritto verso l’ideologia di Stato e verso l’indottrinamento ideologico. Dovendo scegliere tra il rischio di indottrinamento ideologico e quello dell’ignoranza crassa del ‘900, scelsero l’ignoranza crassa del ‘900. Forza Italia si fece portavoce nel Parlamento e nel Paese di questa posizione. E vinse. 



Non vinse, invece, sull’indottrinamento. Gli insegnanti che indottrinavano ideologicamente gli studenti poterono continuare a farlo, dato che esiste la libertà di insegnamento, quale che fosse il periodo storico di cui si parlasse. In ogni caso, dopo la sconfitta di Berlinguer, gli insegnanti furono solennemente autorizzati a continuare nel culto del dio pagano del Sacro Programma. Negli incontri ricordati sopra, ho chiesto ragione ad alcuni insegnanti dell’abisso di ignoranza in cui precipitavano i loro studenti. La risposta è stata ed è sempre la stessa: dobbiamo finire il programma. Sicuro? La realtà è che il programma non lo finiscono. In storia della filosofia si fermano all’Ottocento, in storia si arenano tra la prima e la seconda guerra mondiale. Punto. Ma quand’anche, gli insegnanti ignorano che persino le direttive ministeriali non parlano più di programmi, bensì di Indicazioni nazionali, di esiti in uscita, di competenze-chiave (delle quali la storia è una delle quattro fondamentali), di saperi di cittadinanza. 



Su questo aspetto l’intervento di Grazia Fassorra è pertinente e conclusivo. Alle spalle di questa ignoranza ingiustificabile su ciò che accade all’interno del sistema di istruzione nazionale, sta qualcosa di peggio: il disinteresse di molti docenti per la storia del mondo presente, il disimpegno verso il destino comune e il bene comune, la riduzione della loro missione culturale e civile a routine burocratica, al ruolo di passacarte. Se un insegnante non sta a testa alta nel mondo in cui lui e i suoi alunni camminano e dovrebbero camminare insieme, se non ama il mondo, perché mai dovrebbero interessarsene i suoi alunni? 

A ciò si deve aggiungere un “baco” nella preparazione disciplinare dei docenti. Molti di loro non hanno finito il ‘900, quando frequentavano la scuola superiore; e all’università non l’hanno più studiato. Insomma: sono nella stessa situazione dei loro alunni! Conclusione: se i ragazzi sono oggi piegati, come si ripete ossessivamente, sulla dimensione temporale di un presente piatto, senza immaginarne la profondità e, pertanto, senza lanciare uno sguardo sugli scenari del futuro, la colpa non è di Internet, di Facebook, di Twitter, dei social network, bensì − anche − della generazione adulta che si trovano davanti ogni giorno. 

Sono costretto a citare qui, ancora una volta, dall’autobiografia postuma di Albert Camus Il primo uomo, questa straordinaria rievocazione pedagogico-didattica: “No, la scuola non offriva soltanto un’evasione dalla vita in famiglia. Almeno nella classe del signor Bernard, appagava una sete ancor più essenziale per il ragazzo che per l’adulto, la sete della scoperta. Certo, anche nelle altre classi si insegnavano molte cose, ma un po’ come si ingozzavano le oche. Si presentava un cibo preconfezionato (il Programma!, nda) e si invitavano i ragazzi ad inghiottirlo. Nella classe del signor Bernard, per la prima volta in vita loro, sentivano, invece, di esistere e di essere oggetto della più alta considerazione: li si giudicava degni di scoprire il mondo”. Questo è il punto: senza una relazione intellettuale severa e rigorosa con i ragazzi, la scuola diventa una fabbrica della noia e perciò anche la relazione educativa viene compromessa, degradandosi nella scuola di base in  maternalismo e in quella secondaria in guruship, nell’ipotesi migliore. Peggio ancora: nell’abbandono dei ragazzi a se stessi, nella loro solitudine intellettuale e educativa. 

In realtà, non c’è bisogno di una legge che stabilisca autoritativamente che i ragazzi in uscita dalle superiori debbano conoscere il ‘900. Basterebbe che le autonomie scolastiche prendessero sul serio l’autonomia didattica e organizzassero gli insegnamenti secondo i parametri delle competenze-chiave, come previsto già da anni in sede europea. Ma su ciò rimando a Grazia Fassorra. 

Occorrerebbe che le scuole si strutturassero in quattro laboratori, in corrispondenza del core-curriculum delle quattro competenze: le lingue, la matematica, le scienze, la storia. Lo aveva già previsto il ministro Fioroni tra il 2006 e il 2008. D’altronde, la “storia” non è solo una disciplina, è un ambiente epistemologico, nel quale devono passare ed essere filtrate tutte le discipline, dall’italiano, alla religione, alle scienze, alla matematica. Siamo chiamati a trasmettere ai nostri ragazzi “il sapere di civiltà”: questa è la sintesi delle competenze-chiave. 

Benché gli insegnanti non dispongano di nessun alibi per le loro gravi inadempienze, è pur vero che il loro tempo-scuola è costretto dall’amministrazione e dai sindacati nel letto di Procuste degli orari. Un insegnante deve spendere le sue 18 ore in 5 giorni, non uno di meno. Al “bisogno della scoperta”, all’assioma aristotelico “tutti gli uomini per natura desiderano sapere”, il sistema amministrativo-sindacale risponde con una parcellizzazione del sapere in mille frammenti liofilizzati e insipidi, trasmessi da docenti confinati nel loro solipsismo didattico, agenti e vittime essi stessi del taylorismo didattico. Apprendimento e insegnamento sono frantumati. Alla generazione giovane che chiede a quella adulta “un sapere di civiltà”, la scuola risponde con un sacco di “materie”, affastellate in ore sempre diverse, che non colloquiano tra di loro e che non parlano a ciascun ragazzo. 

I dipartimenti, che dovrebbero coordinare almeno gli insegnanti della stessa materia e tentare incroci con materie vicine, non funzionano: ciascun docente è solo. Ma già adesso è possibile, sulla base legislativa del DPR 275 dell’8 marzo 1999, procedere con “la classe rovesciata” e con “la classe scomposta”. Il Liceo Lussana di Bergamo ci sta provando, utilizzando i socialnetwork e tutte le diavolerie che la rivoluzione informatica ci offre: dalle Lim all’Ipad, all’uso di Facebook. Ci sta provando e ci riesce. Altre scuole sono sulla stessa strada. Anche perché, diversamente, i ragazzi le abbandonano con la testa e, a volte, anche con i piedi, nella misura di 200 mila drop out all’anno.  

Occorre, perciò, una concentrazione delle ore per le discipline e una logica degli spazi del tutto diversa. Perché mai le cinque ore di italiano devono essere suddivise in tre frammenti? E analogamente vale per storia o filosofia o altra materia. E perché il monte orario annuale dei docenti deve essere suddiviso per settimane di 18 ore, a loro volta frammentate in 2+3+1+2 ecc…? Perché gli insegnanti non si ribellano contro i contratti siglati da sindacati e amministrazione, custodi della frammentazione, a tal punto che poi occorre il cervellone di Echelon per assemblare il puzzle degli orari all’inizio di ogni anno di ogni singolo e di tutti i docenti? 

È evidente che rompere la pigrizia intellettuale e educativa dei dirigenti e dei docenti e porre l’apprendimento – non l’insegnamento − al centro dell’intero sistema e di ogni singola scuola, sono la precondizione. L’amico Mereghetti, diversamente da migliaia di docenti, compie un gesto coraggioso: confessa pubblicamente il proprio “peccato”. Ma “la penitenza” non potrà limitarsi ad una troppo comoda giaculatoria. Occorre una battaglia altrettanto pubblica nella sua scuola, affinché l’anno prossimo ai ragazzi non venga sottratto il presente storico. Mereghetti sa che si tratta di una colpa collettiva; perciò è nella comunità educante (?!) che deve dare battaglia, non basta che salvi – ma solo dall’anno prossimo – la propria anima nella solitudine della sua classe. Come ha detto un tale: non ci sono missioni impossibili, ci sono solo uomini che si arrendono.

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