Incontro spesso, in varie circostanze e fuori dalla scuola, diversi dei miei ragazzi. Al calore con cui mi salutano, segue spesso la mia domanda: “Come stai? Lavori?”, “Beh, preside… lavoricchio”. E alla mia insistenza: “Lavori almeno utilizzando il diploma?” la risposta è: “Sì, ma lo sa com’è…!”
Stiamo parlando di un diploma tecnico, conseguito in una scuola riconosciuta fra le eccellenti a livello nazionale. Già, ma siamo al sud e in Sicilia. “Lo sa com’è…!” Come per dire: non c’è bisogno di aggiungere altro.
Eppure nella scuola, anche nella nostra, il tema del lavoro e della sua ricerca è trattato spesso con approfondimenti e attività di orientamento che, attraverso incontri, interviste, stage contribuiscano a ridimensionare la principale difficoltà dei ragazzi: lo scoramento e la sfiducia dinanzi alla diffusa opinione che “tanto il lavoro non c’è” e che, comunque, “ci vuole la raccomandazione”.
È il ritornello che i giovanni sentono in famiglia, fra gli adulti e che essi stessi ripetono fra coetanei.
Talvolta anche qualche professore manifesta quest’opinione, implicitamente vanificando il senso e il valore dello studio e l’opportunità che proprio lo studio e l’impegno personale rappresentano: essere condizione e volano di successo e riuscita, anche fuori dalla scuola.
Senza voler fare analisi storiche, economiche, sociologiche di ampio respiro, vorrei fare alcune considerazioni, partendo da ciò che è accaduto ed accade intorno a me.
In molti della mia generazione siamo dovuti partire per cominciare a lavorare, ma quasi tutti siamo tornati. Potevamo contare su una formazione solida e accreditata e sulla voglia di tornare nella nostra terra, non solo perché è bella, ma anche per non depauperarla.
A noi, giovani del Sessantotto, non mancavano le analisi sociologiche ed economiche, ma, più di esse e della rabbia che ci davano, ci sosteneva l’idea che ciascuno di noi, tornando, avrebbe potuto far qualcosa, magari piccola, ma per tutti.
Oggi i nostri ragazzi partono in anticipo rispetto a noi. Vanno fuori anche per fare l’università, e non tornano più. È altrove che contribuiscono a costruire la loro parte di mondo e, qui, sono pochi quelli che, restando o tornando, tentano caparbiamente di farsi artefici di se stessi e di inventarsi il lavoro.
Si insiste tanto su questo tema dell’imprenditorialità giovanile e sulle start-up, ma realisticamente, quanti ragazzi sono in grado di formulare un’idea originale, farne un’impresa e/o resistere alle difficoltà del nostro contesto?
Ci sono anche i tanti che si indirizzano al lavoro dipendente e che, a fronte di proposte di lavoro part-time, a progetto, senza contributi, sono costretti a barcamenarsi e accettare, pur di cominciare a lavorare, pur di cominciare ad imparare sul campo e nella realtà.
E qui torna preminente la funzione della scuola che, se per prima cosa deve favorire la formazione della persona e del suo progetto di vita, deve anche fornire occasioni per imparare quanto è necessario per poter svolgere il lavoro cui prepara.
La qualità dell’offerta formativa dipende molto dall’adeguatezza dei docenti, e molto da quei dirigenti che si adoperano per creare opportunità di stage e di contatto con il mondo del lavoro, nel contesto in cui si vive e si può, comunque, operare; ma non c’è ragazzo che non sia disposto a mettersi in gioco con chi lo aiuta a divenire più consapevole di sé e gli fornisce gli strumenti conoscitivi e operativi per trovare il proprio posto nel mondo. Teniamolo presente.