Il dibattito sull’insegnamento della storia nella scuola superiore innescato dallo stimolante intervento di Gianni Mereghetti mi ha indotto ad alcune riflessioni, trovandomi spesso di fronte anch’io agli stessi problemi da lui segnalati.

Non entro direttamente nel merito della difficoltà a dire tutto quel che si dovrebbe dire a scuola sulla storia del Novecento. La cosa è già stata sufficientemente messa in luce. 



Mi interrogo piuttosto su di un fatto, ossia sul “killeraggio” da tempo in atto intorno a due discipline: la storia – appunto – e la geografia. Non sto parlando tanto della quantità di ore da dedicare ad esse in base agli ordinamenti. Mi riferisco piuttosto a quel “non detto” ma di fatto “interiormente assunto”, sia dagli studenti sia da molti insegnanti: che queste due discipline valgono quel che valgono. 



Qui mi riferisco in particolare alla storia. Qualche alunno me lo dice anche espressamente: “Che senso ha rivangare cose del passato che non ci riguardano più?”. Chiaro: non sono d’accordo che queste cose non ci riguardano più, ma è un dato di fatto che la questione sia percepita in questi temini. E la maggioranza, silenziosa, annuisce pur senza esprimersi. Parlo di una realtà che in primis non deriva né dalla cattiva volontà di molti insegnanti né da una trascuratezza intellettuale degli studenti. Deriva, invece, da una cultura che ama cancellare il “dove e il quando” riducendolo al “qui e ora”. 



A mio parere c’è molto dello strumentalismo di Dewey in questo, il che è perfettamente in linea con quanto da anni il ministero dell’Istruzione va perseguendo, indifferentemente sotto governi di centrodestra e di centrosinistra. 

Cosa ribatto a chi mi pone l’obiezione sopra ricordata? Semplicemente chiedo: “Prova a immaginare di perdere improvvisamente la memoria. Qual è la prima domanda che ti faresti?” Avendo a che fare con persone intelligenti, la risposta è sempre la stessa: “Mi chiederei chi sono, perché a quel punto non lo saprei più”. Perfetto. Questo è il modello umano che viene a delinearsi: giovani ricchi di conoscenze e anche – ma sì! – di competenze e allo stesso tempo privi di memoria, quindi privi di punti di riferimento, quindi suggestionabili, quindi facilmente manipolabili (al che mi viene in mente il Nietzsche della Gaia scienza: “Dove andiamo noi, lontani da ogni sole? Non continuiamo a precipitare: e indietro e dai lati e in avanti? C’è ancora un alto e un basso?”). 

Si capisce benissimo, allora, che non è di nessuna utilità l’appello alla storia maestra di vita, alla necessità di conoscere i fatti del passato affinché le nefandezze compiute un giorno non abbiano più a ripetersi o perché, come scriveva Cicerone, “i popoli che si disinteressano della loro storia si condannano a essere sempre fanciulli”. Per quanto vere, queste cose non mordono la coscienza e lasciano più o meno indifferenti.

La premessa necessaria per trovare una via d’uscita è quella che già è stata indicata in precedenti interventi: che perlomeno provi passione per essa chi la storia la insegna. E quando dico passione non intendo questo in chiave sentimentalistica, ma nel senso profondo del termine: cuore e ragione.

Allo stesso modo, non tutti fra gli studenti sfuggono a questa passione. Non sfugge, ad esempio, chi vuol capire il presente e che in esso vuol metterci qualcosa di suo. E ce ne sono.

Non si tratta quindi e soprattutto di porre in atto opportune e “miracolose” strategie didattiche (per quanto la loro importanza non sia affatto trascurabile, anzi!); si tratta invece di mettere a contatto uomini che vogliono capire e che vogliono agire personalmente nel mondo e nelle circostanze in cui si trovano a vivere. 

Del resto, proprio oggi (ieri, ndr) Carlo Cardini ha scritto su Avvenire, a proposito di un libro di storia medievale sulla vita politica dell’Italia dei Comuni: “Questo libro è stato ispirato anche ai mutamenti che in questi anni sta subendo la democrazia contemporanea. Si conferma una volta di più che la storia è sempre e comunque storia contemporanea”.

La crisi della storia nella scuola italiana è dunque, a mio avviso, indice di una certa indole culturale, oggi predominante. Per quanto mi riguarda, essendo cattolico, non posso non dare alla storia stessa l’importanza che essa ha. Tutta la vicenda della Chiesa è infatti intessuta dentro la storia, che ne è il milieu imprescindibile. La laicizzazione della cultura porta però inevitabilmente da un’altra parte.  Che sia così non è cosa di cui scandalizzarsi. Lo sento piuttosto come un invito a lavorare sempre più seriamente poiché, come afferma G. De Reynold, “in fondo alla storia si scopre un mistero: quello del destino umano”. Del nostro destino: del mio e di chi mi sta davanti ogni giorno fra i banchi di scuola.

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