L’università italiana, è sotto gli occhi di tutti, versa da molto tempo nelle acque limacciose della rigidità burocratica e della mancanza di programmazione e visione, ancora prima dell’assenza di fondi. La crisi che attraversa il Paese ormai da anni non ha stimolato da parte di chi guida l’istituzione universitaria la formulazione di ipotesi concrete per attivare meccanismi di rinnovamento. Non ancora, almeno.
Fra i tanti problemi che affliggono l’università italiana, uno in particolare riguarda l’annoso tema della selezione all’ingresso, specialmente per le facoltà mediche. È un tema cruciale, vista la configurazione dell’università italiana, che si ritrova a essere un sistema che pretende di garantire uguale formazione per tutti quelli che lo desiderano, ma con un’idea degli studi accademici ferma a cinquant’anni fa, cioè di impianto didattico-teorico sostanzialmente élitario: grande completezza e autoreferenzialità dei corsi che si connotano per un solido e in alcuni casi impervio impianto teorico, spesso contraddistinto da un approccio storicistico a analitico delle discipline offerte.
È una università di massa ma élitaria. Tale impianto è del tutto differente per esempio da quello delle università di stampo anglosassone, dove alla completezza si sostituisce la flessibilità e la personalizzazione dei percorsi, e gli aspetti teorici si affrontano non sempre con la profondità latina (soprattutto italiana: basti pensare a quanto devono sudare sulla matematica gli studenti italiani delle facoltà scientifiche), ma sono una possibilità offerta allo studente man mano che sviluppa il suo percorso. Studente al quale viene spesso data la possibilità di sperimentare e sperimentarsi, soprattutto grazie a un rapporto numerico studenti/professori vantaggioso e a una disponibilità dei docenti all’attività didattica generalmente più elevata rispetto ai nostri professori, anche perché riconosciuta contrattualmente.
Le università anglosassoni sono però famose per la durezza nella selezione all’ingresso, che permette loro – soprattutto negli Usa – di garantire a ogni studente il livello di istruzione che dicono di offrire, in quanto possono chiaramente e precisamente programmare i numeri sia degli studenti che l’entità delle risorse da investire/destinare anno per anno.
Dopo l’inizio degli anni 70, aprendo le porte a tutti gli studenti, anche l’università italiana si è trovata nella necessità di porre un freno al numero degli accessi, per cercare di garantire l’adeguatezza dell’offerta formativa, soprattutto in alcuni corsi di laurea – Medicina sopra tutte -, anche perché il numero di medici in circolazione deve essere in qualche modo controllato a livello statale.
Con l’introduzione della riforma Berlinguer (il famigerato “3+2”, che altro non è che frutto di un accordo a livello europeo per garantire il riconoscimento dei titoli, dei crediti formativi ecc. fra tutti gli appartenenti all’Ue – l’accordo di Bologna -, e non una particolare “pensata” del nostro Miur), si sono iniziati a introdurre test anche in facoltà diverse dalle ormai tradizionali Medicina e Architettura.
Agli occhi di chi scrive questa esigenza di limitare l’accesso appare ragionevole: non tutti sono ugualmente in grado di fare lo stesso percorso universitario, perciò l’università bene fa a dichiarare quanti medici, architetti, ingegneri ecc. riesce a formare adeguatamente e a porre perciò un numero-soglia all’ingresso. Ne va della qualità del percorso formativo che viene poi effettivamente erogato. Il problema è come operare la scrematura.
Su questo tema abbiamo però poche certezze e molti problemi: una certezza è per esempio che in Italia questa selezione viene affidata a uno dei sistemi più contestati, i test, mentre i problemi sono quelli storicamente presentati “ai piani alti” da moltissime organizzazioni studentesche, che accusano i test di essere incostituzionali, manovrati, iniqui ecc. a volte non senza ragioni.
Negli ultimi due anni la problematica è diventata ancora più urgente, come effetto delle decisioni prese dagli ultimi due ministri competenti, Profumo e Carrozza, che prima hanno anticipato le date dei test, poi hanno deciso di eliminare e rimettere la considerazione del peso del voto dell’esame di maturità, per poi eliminarlo definitivamente anticipando il test ad aprile, generando polemiche a non finire a ogni passaggio.
Nelle ultime due settimane abbiamo assistito a un clamoroso intervento dell’attuale ministro Giannini, la quale annuncia in data 21 maggio 2014 che intende “rivisitare il sistema di selezione, prendendo a modello il sistema francese (accesso al primo anno libero e selezione alla fine di esso su base meritocratica)”, e che entro la fine di luglio formulerà “la proposta e le nuove regole”.
A ben guardare, la vicinanza delle elezioni europee, appuntamento al quale la compagine di Scelta Civica − di cui Stefania Giannini è segretario − si è presentata senza grande appeal, è probabilmente stata la ragione più importante di un intervento di questo tipo da parte del ministro. Tanto è vero che Beatrice Lorenzin, titolare del ministero della Salute, ha subito appoggiato la “mozione Giannini”, per cambiare idea nel breve volgere di una settimana, smarcandosene in modo netto non appena si sono ultimate le operazioni elettorali. La strada battuta per un’ipotesi di intervento così forte, dunque, fa pensare già in partenza a evidenti limiti impliciti.
In ogni caso l’annuncio è di quelli forti, e ha suscitato interesse e commenti da molte parti: i medici, i politici, gli studenti. Nessun ministro dell’università aveva mai pensato di abolire i test rimandando la selezione alla fine del primo anno accademico. Questo annuncio ha generato un grande entusiasmo, soprattutto fra gli studenti più legati alle sigle della rappresentanza studentesca di area democratico-progressista. Bisognerebbe però considerare attentamente quanto detto dal ministro. Il sistema francese infatti non è libero da problemi: gli studenti hanno libertà di scelta, ma poi fanno ben due test − uno a metà anno e uno a fine anno − sulle materie studiate per garantirsi il passaggio al secondo anno.
Quante proteste potrebbero nascere in Italia? Inoltre quello che gli osservatori denunciano è che il primo anno in Francia si dimostra di livello più basso, per effetto del numero molto alto di studenti, ovvia conseguenza dell’apertura a chiunque del percorso formativo. Chiediamoci cosa accadrebbe nelle facoltà mediche in Italia se si aprissero le porte a tutti i desiderosi di fare una certa facoltà. Prendiamo i numeri degli iscritti al test di medicina nel 2014: più di 70mila. I famigerati test hanno comunque “garantito” che i frequentanti non fossero oltre i 10.551. Quali strutture universitarie potrebbero accogliere un numero di studenti pari a quello di tutti gli iscritti ai test? Che tipo di offerta didattica sarebbe loro proposta? Il sistema della formazione medica certamente imploderebbe, a detrimento innanzitutto degli studenti.
E dunque? Si può prendere sul serio la proposta del ministro, che ha comunque il merito di offrire una prospettiva differente da quella angusta dei test? Cosa si può fare?
Agli occhi di chi scrive il problema andrebbe impostato e affrontato in modo differente: bisognerebbe chiedersi cosa significa selezionare, e forse bisognerebbe avere l’umiltà di “andare a scuola” da chi della cultura della valutazione e della selezione ha fatto bandiera, con risultati apprezzati in tutto il mondo pur dentro inevitabili storture e problemi: gli Stati Uniti.
Come detto all’inizio, l’accesso all’università per gli americani è un vero scoglio. Il primo scoglio è finanziario, il secondo è il percorso di selezione. Tralasciando la questione finanziaria, che pone gli Usa su un piano radicalmente differente dal sistema italiano, con rette che in alcuni casi possono superare i 50mila dollari annui, è interessante capire come viene condotta la valutazione in vista della selezione dagli atenei americani. La prima questione da sottolineare è che si tratta di un processo e non di una specie di “lotteria”, come accade con i test universitari italiani. Va inoltre notato come questo processo sia preparato già nelle high schools: esistono consulenti specializzati nell’orientamento che seguono gli studenti durante la scuola per arrivare a una decisione sufficientemente matura all’atto della scelta universitaria. Durante l’ultimo anno di liceo lo studente “applica” (cioè manda domanda di ammissione) presso una serie di università (in media non meno di 4) e inizia il suo processo di selezione. Nei due anni precedenti lo studente si è di solito già sottoposto ai test di valutazione. I test si tengono più volte durante l’anno, generalmente non sono legati a una particolare facoltà e sono di due tipi: l’SAT (dalle sigle “Scholastic Aptitude Test” e “Scholastic Assessment Test“) e l’ACT (“American College Testing“). Il primo è in uso dal 1901 e viene erogato dalla società per azioni College Board, mentre il secondo venne alla luce per la prima volta nel 1959 ed è ora erogato dalla società Act Inc.
Il test insomma è qualcosa che ha valore in sé, è un passaggio al quale lo studente si sottopone autonomamente per farsi valutare e lo consegna alle università per le quali sta applicando. Le diverse università indicano quali test richiedono, se l’SAT o l’ACT.
La differenza rispetto al sistema italiano di intendere la selezione è abissale nei modi e nel contenuto stesso della valutazione: viene presa in considerazione la domanda dello studente e inizia così un cammino di selezione e valutazione, fatto di presentazione di domande e titoli, test, interviste. Un percorso in più step che porterà l’istituzione universitaria a valutare nel modo più adeguato possibile la persona che sta chiedendo di entrare, secondo criteri che si aggiornano continuamente.
Qui è il nodo principale: fondamentale in questo passaggio è l’adeguatezza del metodo di valutazione. Valutare una persona è difficile e il giudizio sulle sue capacità, conoscenze e competenze non può essere affidato a un test a crocette da svolgere in meno di due ore. Solo chi ha rinunciato a conoscere le persone si può affidare a un sistema tanto inadeguato. C’è bisogno di passaggi più vari, di prove più ragionevoli e ad ampio spettro e di conoscere e valutare bene le sue intenzioni, le sue esperienze, e se possibile anche il parere di qualche persona autorevole con cui la persona in questione è venuta in contatto o ha avuto a che fare (le famose “referenze”).
Le domande sulle quali ci siamo soffermati hanno perciò una possibile risposta: non è affollando le aule al primo anno di Medicina che si recupera l’adeguatezza nel giudizio. Sappiamo per esperienza cosa significa partecipare a lezioni con diverse centinaia di persone. E sappiamo per certo che un professore non potrà avere un giudizio più chiaro sulle persone o offrire un servizio migliore se viene impegnato con un numero di studenti sei o sette volte superiore. La ricerca di adeguatezza imporrebbe forse un altro approccio. Se quello americano non è perseguibile, perché il sistema universitario italiano è radicalmente differente, forse si può però trarne qualche indicazione utile.
La prima è la questione dell’orientamento scolastico. È un fatto che nella scuola italiana venga fatta poco e male, e il più di quello che viene fatto è il mettere in vetrina le università, di fatto non risolvendo la confusione dei ragazzi. La seconda è la valutazione in senso stretto: nell’esempio statunitense è chiaro che la valutazione è ampia, procede per gradi e passaggi successivi e cerca di conoscere il ragazzo che fa richiesta di ingresso. Quello che il ministro propone è simile nella sostanza (un anno di frequenza, costi quel che costi) ma impraticabile nella forma, a causa delle condizioni dell’università, ma non solo quella italiana: è impraticabile perché sestuplicare i partecipanti alle lezioni del primo anno non permette di aumentare l’adeguatezza del giudizio, tanto più che anche il sistema francese deve ricorrere ai test onnicomprensivi su tutti gli esami svolti nel semestre (cosa vale di più: il test o gli esami? Le crocette giuste o la media ottenuta negli esami? A quanti ricorsi stiamo preparando la strada?…).
È per questo che la soluzione proposta appare scivolare verso una procrastinazione del momento della scelta, con detrimento del primo anno dei corsi di Medicina e di altre facoltà, più che arrivare a un approdo positivo dell’annosa questione della selezione.
Siamo consapevoli che non esistono ricette facili a questo problema, ma sicuramente l’adeguatezza del giudizio si potrebbe perseguire insistendo su due aspetti: orientamento/accompagnamento prima della scelta e processo di valutazione (e non prova “one shot”).
Forse il ministro Giannini poteva ricordarsene prima di rispondere a qualche chat su Facebook, un metodo immaginifico e “giovane” ma sicuramente inadeguato per proporre cambiamenti così importanti per l’istituzione universitaria. Aprire un confronto e un dialogo con quei soggetti che in ambito universitario hanno a che fare quotidianamente con l’orientamento, la valutazione e la selezione degli studenti universitari, come la rete dei Collegi di Merito (di cui il network Camplus è parte, insieme a molte altre realtà), potrebbe portare a una proposta più meditata e probabilmente più efficace.