È con un certo imbarazzo che prendo la parola nel dibattito sull’insegnamento della storia contemporanea ospitato da ilsussidiario.net, imbarazzo perché non ho mai insegnato nella scuola media superiore (il mio termine di paragone sono gli studenti universitari) e perché mal sopporto chi pontifica dall’esterno sui malanni della scuola italiana e sulle presunte “colpe” dei docenti. Quel che posso dire è frutto della mia esperienza di docente universitario, che per fortuna può ancora scegliere a quale argomento dedicare le proprie lezioni. 



C’è il rischio che chi lavora in prima linea, a contatto con le gioie e i dolori di un rapporto educativo che si svolge nella quotidianità delle aule scolastiche, non trovi nelle mie parole elementi di effettiva utilità. Nonostante ciò, provo ad aggiungere qualche elemento di riflessione, e lo faccio perché il taglio degli interventi di chi mi ha preceduto ha fatto riaffiorare una preoccupazione di cui cerco di tener conto tutte le volte che salgo in cattedra. 



I miei interlocutori sono generalmente studenti che sanno pochissimo di qualunque storia, compresa la contemporanea, e che spesso sono affetti da un’allarmante mancanza di senso del tempo, essendo abituati – credo più da internet che dai loro professori del liceo – ad appiattire il passato sul presente, un presente che si svolge in uno spazio in apparenza illimitato ma che, in realtà, è racchiuso nei limiti angusti di un punto di osservazione che non riesce ad avere un rapporto equilibrato con la dimensione della temporalità. Proprio per questo credo che ridurre la conoscenza storica a strumento per interpretare l’attualità non possa che approfondire questo squilibrio, il cui esito, paradossale, non è certo l’incremento della consapevolezza del presente. 



È vero, tutta la storia è storia contemporanea, come hanno ricordato alcuni e come io stessa sono pronta a sottoscrivere. Questo però non significa che c’è una storia da privilegiare, quella contemporanea, sempre più contemporanea, e un’altra da mettere in secondo piano, perché non collegabile all’attualità e non comprensibile come un insieme di dati e di esperienze da utilizzare in funzione del presente. Credo (e sempre più fermamente, insegnando storia contemporanea a studenti generalmente attratti da ciò che è più vicino ma di cui non sanno vedere la complessità) che tutta la storia abbia a che fare con il nesso presente-passato, nesso ben più profondo di una storia ridotta a una sorta di “supermercato” delle cose utilizzabili a fini troppo attuali. 

Agli studenti che arrivano all’università mancano le conoscenze necessarie a ricostruire qualsivoglia percorso storico; ma manca soprattutto il senso della durata e della complessità della storia umana. A volte se ne rammaricano, a volte raccontano che qualche professore ha cercato di attirare la loro attenzione su argomenti apparentemente più rispondenti alla sensibilità del momento – per fare solo un esempio: la storia delle donne – ma che poi non si è curato di collocarli nel contesto storico, con il risultato che quel pezzo di storia non è servito a capire presente e passato e che persino l’oggetto indagato è rimasto qualcosa di astratto e incomprensibile, perché la metodologia didattica prescelta ha spezzettato epoche e argomenti e perché il contenuto della memoria non è stato rielaborato criticamente.

E molti studenti – bisogna pur ricordarlo – non ne sono soddisfatti, vorrebbero avere punti di riferimento storici più certi, vorrebbero essere stati aiutati a fare collegamenti e paragoni tra le diverse epoche, vorrebbero saper vedere nessi e problemi sottesi agli argomenti e poter contare sia sulle cosiddette nozioni di base (di cui spesso sentono una mancanza che li lascia disorientati), sia su una percezione più ampia e profonda di continuità e rotture, di problemi interpretativi e di questioni ancora irrisolte.

Pensare la storia, del resto, può e deve abituare a confrontarsi non solo con ciò che siamo e sappiamo – o pensiamo di sapere –, ma con ciò che è e rimane diverso da noi e dalle nostre categorie: la storia, infatti, apre all’ignoto e ricostruirla significa essere disponili a un’avventura dagli esiti spessi imprevedibili, sviluppando la capacità di comprensione di una realtà “altra” dalla nostra e alimentando un interesse per la diversità umana che è importante coltivare per non rimanere bloccati su se stessi e sul proprio “mondo piccolo”. Proprio per questo vedo in alcune prese di posizione di chi mi ha preceduto il rischio di un certo determinismo storiografico, quasi che siano le urgenze dell’oggi, più o meno ideologicamente connotate, a dover dettare l’interesse per il passato. A immunizzarci da tale tentazione dovrebbe esserci la consapevolezza della metodologia tipica della ricerca storica, che è anzitutto ricerca, gusto di conoscere ciò che non si sa ancora e che non si può ingabbiare previamente dentro le proprie coordinate senza fare la fatica del paragone con le fonti e di una verifica che può anche approdare in territori inesplorati. 

Certo – si potrebbe obiettare – non è questo il compito di un docente di scuola media superiore; ma c’è modo e modo di raccontare la storia, e i ragazzi sono affascinati quando il docente, ponendo le domande che lui per primo ha fatto a sé e al passato, sa comunicare non una storia soffocante perché soffocata dalla tendenza a chiudere il mondo in una stanza, ma la fame di saperne di più e la voglia di superare paletti e strettoie ideologiche che mortificano l’avventura della conoscenza. 

Queste considerazioni, ovviamente, valgono quale che sia l’epoca che vogliamo ricostruire. E valgono per il Novecento, la cui storia intercetta più facilmente l’interesse degli studenti ma che, al tempo stesso, è più facilmente riducibile a strumento politico e ad espediente per consolidare appartenenze e convinzioni variamente connotate. Raccontare il Novecento avendo in mente la metodologia della ricerca storica può aiutare ad evitare questi scogli, perché significa presentare un cantiere ancora aperto, nel quale le porzioni diverse che compongono l’edificio del passato possono essere costruite quando non mancano i mattoni, a cominciare dalla disponibilità delle fonti e dalla capacità di confrontarle tra loro e con i diversi approcci interpretativi. 

È anche questa la ragione dello iato di metà Novecento, che non deve trattenere dal superare le colonne d’Ercole della seconda guerra mondiale, nella consapevolezza, però, dei limiti inevitabili della nostra conoscenza man mano che ci avviciniamo all’attualità. I primi cinquant’anni del secolo sono talmente pieni della “grande storia” che si fa fatica a discostarsene. Al loro paragone, il secondo Novecento appare come un insieme di vicende un po’ grigie ed opache, meno coinvolgenti soprattutto se le si guarda dal punto di vista della storia politica. Anche il secondo Novecento, tuttavia, comincia ad essere percorribile, pur con gli accorgimenti cui si è fatto cenno, ed è capace di captare lo sguardo attento e appassionato degli studenti, a patto di non ridurlo a un’insostenibile cronologia – che non è storia – e di far affiorare i nodi problematici  che, per rimanere all’Italia, sono sottesi alla lunga sequenza di crisi di governo e di alchimie politiche più o meno riuscite. E di nodi ce ne sono davvero tanti, molti dei quali rimangono per ora non scioglibili, altri, invece, affrontabili dichiarando l’approccio interpretativo di riferimento; altri, ancora, da far emergere per spiegare davvero come siamo diventati, una spiegazione che in realtà non può partire dalla cesura politica del ’45, bensì dalle trasformazioni rapide e dirompenti degli anni Sessanta e dalle conseguenze che la modernizzazione sotto specie italiana ha prodotto nella vita di milioni di persone.

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