LIPSIA – L’incontro tra l’università e un liceo è una notizia che può interessare il mondo della scuola, non solo dove questo incontro è stato attuato, ma anche, come ispirazione, altre scuole che operano in Europa e che hanno da affrontare un’emergenza educativa simile, pur nelle differenze dei territori e degli stati.
L’emergenza forse si può riassumere così: quale speranza siamo capaci di offrire, come insegnanti o genitori, ai nostri allievi e ai nostri figli? Quale speranza portiamo con noi, come tesoro che sostiene in primo luogo noi stessi ed è capace di rigenerare il nostro io?
L’Università di Göttingen, facoltà di teologia, sotto la guida del Prof. Dr. Bernd Schröder, professore di teologia pratica con attenzione particolare alla pedagogia della religione, ha visitato, con un team di otto persone, la nostra scuola nella Sassonia-Anhalt: un liceo riconosciuto dallo stato, con profilo religioso, economico e di attenzione a diverse forme di eccellenza scolastica o intellettiva senza però un necessario successo a livello scolastico. In giugno questa esperienza è stata oggetto di riflessione anche a livello scritto con una relazione pro manuscripto dal titolo: Unterwegs zur guten Schule. Religionspädagogische Schulbegehung der CJD Christophoruschule Droyssig, 9. bis 12. März 2014 (“In cammino per diventare una buona scuola. Visita da un punto di vista di pedagogia della religione della scuola san Cristoforo in Droyssig”).
Facevano parte del team, oltre a dottorandi ed assistenti del professor Schröder, il pastore evangelico luterano Gerd Brinkmann dell’ “Evangelisches Schulwerk” di Hannover, responsabile della politica scolastica della Chiesa luterana di Hannover, la dirigente scolastica Dr. Barbara Hanusa della scuola Ecole d’Humanité (Hasiliberg Goldern, scuola con attenzione individuale ai ragazzi ed assenza di voti fino alla maturità) della Svizzera e la Dr. Silke Leonhard, rettrice dell’Istituto pedagogico-religioso di Loccum (Hannover), che nelle sue pubblicazione cerca di approfondire forme performative e non solo cognitive dell’insegnamento di religione.
Il team del professor Schröder visita da alcuni decenni, a cadenza biennale, le scuole più prestigiose della Germania, con una duplice intenzione: una riflessione pratica sul profilo cristiano nella scuola visitata e gli aspetti di riforma pedagogica nell’insegnamento che vengono attuati o meno in essa.
Nello scritto citato viene specificato il criterio di una riforma pedagogica dell’insegnamento nella differenza tra “Erziehung” (educazione) e “Bildung” (formazione). Un atteggiamento di vera riforma nell’ambito della pedagogia viene attuato nella “Bildung” (per questo concetto viene fatto il nome di Friedrich Schleiermacher, 1768-1834). Schröder lo descrive come un percorso di responsabilità che lo scolaro percorre in prima persona così da diventare un reale “soggetto” (ibidem, 44). Mentre “Erziehung” è piuttosto un metodo cognitivo in cui un adulto insegna ad uno scolaro qualcosa, che ritiene pertinente o in forza della propria autorità o in forza di un programma scolastico. Insomma nella prima l’io viene generato o rigenerato in un processo autonomo, nella seconda invece ha bisogno di una adulto come “autorità”.
Nello scritto dell’Università di Göttingen sulla nostra scuola, pur riconoscendo tutto ciò che di positivo viene fatto, si sottolinea che siamo una scuola più attenta all’educazione (Erziehung) che alla formazione (Bildung). Alla base di questo fatto Schröder mette l’educazione che molti genitori e anche molti insegnanti della nostra scuola hanno ricevuto nell’ex DDR. Interessante per me, come responsabile del profilo cristiano della nostra scuola (fondata da un pastore evangelico-luterano, Arnold Dannenmann), è che anche il mio “fondamento programmatico romano-cattolico” venga citato tra le cause del nostro essere più “educativi” che “formativi”. È singolare, a questo proposito, che il titolo di uno dei miei testi di riferimento sia Wagnis der Erziehung (Luigi Giussani, Il rischio educativo) e non “Wagnis der Bildung”; ovviamente in questo rilievo non si tiene conto che il rischio educativo è realmente interessato non solo ad una comunicazione autorevole, ma anche e in primo luogo alla “generazione dell’io”, che non deve solo accettare ma verificare la proposta educativa.
Per quanto riguarda il profilo cristiano della nostra scuola, Schröder ha notato un livello molto alto dell’insegnamento religioso, come non sempre si trova nelle scuole tedesche. In esse la preparazione religiosa è così di frequente superficiale, che Schröder ha ammeso di essere spesso portato a ritenere che un’abolizione dell’insegnamento della religione nelle scuole potrebbe essere un modo per far rinascere nella società un desiderio di autentica e profonda educazione religiosa. Questo pensiero così provocatorio mi sembra molto interessante, sebbene per quanto riguarda la realtà dei nuovi Länder della Germania quarant’anni di DDR e quasi un quarto secolo di realtà tedesca riunificata, ma non per questo meno “materialista”, potrebbero portare anche ad una totale dimenticanza della cultura religiosa, come ha ammesso lo stesso professore di Göttingen.
Fatto è che una profonda educazione religiosa non è possibile in forza di un sapere superficiale e neppure se l’insegnamento viene solamente arricchito da forme performative (cfr. elementi teatrali, eccetera), che senz’altro possono movimentare l’insegnamento di religione, ma che se ridotte ad una pura tecnica didattica, non possono superare quella “distanza” (Schröder) che ogni comunicazione religiosa, che non diventa vita, porta con sé. Schröder diceva tra l’altro che nel dialogo con i musulmani in Germania toccherebbe ai cristiani superare quell’atteggiamento di “distanza” nelle cose religiose che non permette alla fede di diventare quello che è: un’introduzione alla realtà.
Dovevo pensare, ascoltandolo su questo punto – quasi per sottolineare che la differenza a livello programmatico teorico tra “Erziehung” e “Bildung” non impedisce una percezione operativa comune − sia al Rischio educativo di Luigi Giussani sia all’analisi che ha fatto papa Francesco nella Evangelii Gaudium, quando parla del pericolo della gnosi e del neopelagianesimo, e che Massimo Borghesi vede con ragione come un elemento comune a don Giussani e al papa.
La mondanità spirituale, scrive papa Francesco, “può alimentarsi specialmente in due modi profondamente connessi tra loro: uno è il fascino dello gnosticismo, una fede rinchiusa nel soggettivismo, dove interessa unicamente una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti; l’altro è il neopelagianesimo autoreferenziale e prometeico di coloro che in definitiva fanno affidamento unicamente sulle proprie forze e si sentono superiori agli altri perché osservano determinate norme o perché sono in modo irremovibile fedeli ad un certo stile cattolico proprio del passato. È una presunta sicurezza dottrinale o disciplinare che dà luogo ad un elitarismo narcisista e autoritario, dove invece di evangelizzare si analizzano e si classificano gli altri, e invece di facilitare l’accesso alla grazia si consumano le energie nel controllare. In entrambi i casi, né Gesù Cristo né gli altri interessano veramente. Sono manifestazioni di un immanentismo antropocentrico. Non è possibile immaginare che da queste forme riduttive di cristianesimo possa scaturire un autentico dinamismo evangelizzatore” (Papa Francesco, EG, 94).
L’insegnamento della religione (che è anche una forma, sebbene scolastica, di evangelizzazione), ridotto ad una “serie di ragionamenti”, che per la loro natura non possono che rimanere a “distanza” dall’unico vero “oggetto” di questo insegnamento, che è Dio o l’uomo al cospetto di Dio, mischiato con un sapere superficiale della propria o dell’altrui religione, corre il rischio di diventare una forma di gnosi superficiale, che nel confronto con altre persone che vivono “direttamente” la propria fede o la mancanza di fede, non ha niente da dire né al cuore né all’intelligenza dell’uomo in ricerca. Il conforto e la luce ricevuta non sono altro che fenomeni superficiali e soggettivi, di un “soggettivismo” che lascia nella miseria della propria “ragione o dei suoi sentimenti”.
Il pericolo invece del “neopelagianesimo” nella scuola viene vissuto da un’educazione ridotta a tecnica educativa, che ci renderebbe insegnanti migliori degli altri. Se la “presunta sicurezza dottrinale o disciplinare” riguarda più “una forma nuova, di destra, tipica di certo tradizionalismo cattolico” (come ha sottolineato Massimo Borghesi), “l’elitarismo narcisista ed autoritario” (cosa che non ha nulla a che fare con un’autentica autorità, che lascia ed aiuta l’altro ha diventare realmente soggetto) è certamente una tentazione di noi tutti insegnanti, quando non percepiamo più la scuola come un “dono”, ma come una nostra “attività prometeica” in cui non ci intessano “nè Gesù Cristo né gli altri” (scolari, colleghi e genitori).
Ma senza Gesù Cristo come sguardo ultimo di simpatia per gli altri quale speranza abbiamo in noi, come insegnanti o genitori, che ci aiuti a vivere e aiuti a vivere i ragazzi che ci sono affidati? E per questa meta, secondo me, non è tanto necessaria una presenza “religiosa” esplicita e coordinata in una scuola, ma una “presenza” umana che sa di sé e degli altri, consapevole che solo l’avvenimento cristiano, come sguardo di assoluta simpatia per il destino dell’uomo, può generare l’io dell’uomo, degli scolari, degli insegnanti e dei genitori, attori comune di una comune risposta “educativa” all’emergenza educativa percepita da tutti.