Perché i filosofi oggi sono quasi tutti professori di filosofia? Recentemente Repubblica ha proposto ai suoi lettori un breve scritto di Louis Althusser, in cui partendo da questa osservazione il pensatore francese distingue fra un modo di fare filosofia “idealistico”, volto a creare teorie, e un modo “materialistico”, proteso a cambiare la realtà. Lasciando intendere la necessità di allargare la cerchia dei filosofi che senza chiudersi in mondi “eterni” e astratti sappiano riaffermare “che la filosofia è innanzitutto pratica, viene dal mondo reale e produce, senza saperlo, degli effetti concreti nel mondo reale”.
È vero. La filosofia non è più praticata da medici (come Averroè, o Locke) o da artigiani (come Spinoza). Si è chiusa in un sapere specialistico gergale e autoreferenziale? I filosofi sono “poeti senza talento”? È per questo forse che la parola stessa “professore” ha assunto un connotato lievemente canzonatorio e sotto sotto spregiativo…?
Ma allora, perché la collettività decide di mantenere nel proprio sistema formativo pubblico, licei e università, i professori di filosofia? Essi sono persone che pensano e basta. Pensano a che cosa? E insegnano che cosa?
“La filosofia non si insegna”, dice Althusser. È giusto, non si può insegnare a pensare. Si può solo fare di qualcuno un compagno di strada nel pensare. Si può scegliere qualcuno come guida nel pensare, andandogli dietro come in montagna. E si può scoprire che seguendolo si arriva dove non si sarebbe mai sospettato. È anche erroneo dire che si possa “pensare con la propria testa”. Si pensa sempre già immersi in un contesto, in un linguaggio che ci dice, in un gioco che ci gioca. E meno che mai in un’epoca di media pervasivi e onniconnessi è realistico pensare di pensare “con la propria testa”. Eppure nessuno può pensare al posto mio.
Insegnare filosofia significa prendere qualcuno come compagno per iniziare un’esperienza felice: affrontare un problema di verità o di senso in modo filosofico, cioè con il solo strumento della ragione.
Insegnare filosofia significa prendere sul serio l’umanità propria e altrui, farsi carico dell’esigenza di senso insopprimibile nell’umano vivere. Laddove tutti vedono fatti, intravedere problemi. Mettere avanti un piede, e poi un altro, e poi un altro…. sondare la realtà come saggiandone la consistenza, senza sapere bene dove questo lavoro di esplorazione andrà a parare.
Althusser fa dunque riferimento a due modi di essere filosofi, l’idealista e il materialista. L’uno fuori dalla storia, l’altro immerso in essa.
Si potrebbe rovesciare questa posizione. Ad esempio osservando che spesso proprio la volontà di trasformazione del mondo ha portato alla prassi anti-storica e anti-umana derivante dall’applicazione di teorie che pretendevano di rigenerare la realtà. Dall’altro lato però quel che osserva Althusser è vero anche in un altro senso: i mondi bellissimi dei filosofi sono davvero un universo in cui entrare, e costituiscono un godimento che tutti dovrebbero poter provare.
Nessuno può negare che sia una vera e propria esperienza il seguire un grande filosofo nei suoi territori. Chi è stato almeno un attimo, anche solo di passaggio, nel mondo di Platone o di Kant ha fatto un’esperienza vertiginosa. Come chi ha visto i paesaggi della Patagonia, o un’aurora boreale. O l’hai vista, o non l’hai vista. Come sentire una sinfonia di Beethoven. Come entrare nella Cappella Sistina. È un’esperienza che non si dovrebbe negare a nessuno.
Io vedo brillare negli occhi dei miei allievi il guizzo estetico dell’intelletto, quando come in un gioco logico di deduzione seguiamo il filo del ragionamento di Cartesio, o quando come sulle montagne russe seguiamo la spericolatezza del pensiero di Parmenide, o di Berkeley, o ancora quando siamo presi nelle spire del procedere di Hegel che tutto avvolge. Insegnare filosofia significa vibrare assieme del fascino dell’intelligenza. Esplorare mondi. Fare esperienza “che è proprio così”. Sono mondi fuori della storia? No. In questi mondi noi entriamo con la nostra storia, con le nostre domande, col nostro linguaggio, con il nostro orizzonte. E ne torniamo cambiati.
D’altro lato, va preso sul serio Althusser quando mette in guardia dal rischio che questi mondi restino semplici bolle teoriche in cui rifugiarsi. È necessario, egli dice, che i filosofi stabiliscano rapporti fecondi tra il mondo della filosofia e il mondo della realtà. Althusser invita i professori “a cercare al loro esterno, nelle pratiche, nelle conoscenze e nelle lotte sociali — ma senza tralasciare le opere filosofiche — di che imparare a filosofare”. È verissimo. E forse Repubblica ha pubblicato ora questo vecchio scritto di Althusser proprio per sottolineare l’esigenza sentita di un rinnovato apporto dei filosofi alla critica dell’esistente. Mai come oggi sembra che, tramontate le ideologie, i filosofi, e tanto più i professori di filosofia, abbiano perso il loro ruolo di portatori di riflessione critica e di proposizione di “altro” rispetto all’esistente. In questo senso l’auspicio di Althusser è attualissimo.
Ma Althusser sembra affermare che solo i materialisti possono essere filosofi in questo modo. Mi sembra difficile sostenerlo oggi, quando proprio il materialismo nella versione consumista e nihilista ha prodotto la più feroce e classista fuga dal mondo reale nel vortice infinito dell’effimero, del virtuale, del fittizio. Ha anestetizzato gli uomini allontanandoli dalla realtà, facendoli scivolare quasi inavvertitamente nella più spaventosa disuguaglianza sperimentata nella storia. È solo da una visione etica e antropologica radicata in un “tu” che si sottrae alla reificazione, che si può trarre l’energia per imparare a filosofare sulla realtà e nella realtà per cambiarla.
Insegnare filosofia è senz’altro un dono della vita, un privilegio. A ben vedere, significa sempre con-filosofare: soprattutto con i grandi del passato, ma non meno con i giovani allievi. La realtà ci appella, ci urta nella sua datità. Ma solo restando uomini e donne interi, con la nostra carica irriducibile di esigenze ed evidenze originarie, e solo facendo spazio in noi e nell’altro all’eco di un essere che si sottragga all’infinita catena delle cause, potremo rispondere all’appello che dalla realtà ci viene con tutta l’energia che il cambiamento richiede.