Chiamatemi Ishmael, perché vi racconterò una storia.
Dell’esame di Stato nella sua attuale situazione si potrebbe dire molto, ed anche male, e non sarebbe molto difficile, elencando le problematiche relative alla natura delle tre prove scritte e del colloquio interdisciplinare, soprattutto con l’approssimarsi di quella paventata rivoluzione che dovrebbe avere avvio con le prime classi della riforma nell’estate del 2015. Oppure si potrebbe difenderne il valore di rito di passaggio per una generazione quasi priva di stimoli, indipendentemente dalle condizioni in cui questo rito deve avvenire. Anche un certo scetticismo legato alla percentuale di oltre il 95 per cento dei promossi e le polemiche legate all’attribuzione del punteggio finale, sia per il singolo che in base alla distribuzione geografica, potrebbero essere degno di nota. Non si potrebbe nemmeno deprecare chi volesse lamentarsi della logica alogica che porta alla composizione delle commissioni, con materie non presenti in commissione perché non compatibili con il numero massimo di docenti.
Esiste tuttavia un’arte, quella del “racconto” di Ishmael, il narratore di Moby Dick, testimone di una tragedia annunciata, e quest’arte è a mio parere superiore e più rischiosa di quella dell’analisi. La prima vive del momento fuggente, così chiaro al testimone e così opaco all’ascoltatore, la seconda sta solida sull’ampiezza del discorso ben condotto. Ma un racconto può avvincere e persuadere, e dar nuovo vigore. Anche se non parla dei sette letti della favola di Biancaneve, ma di sette sedie rosse tutte in fila ed occupate, con una rossa dirimpetto e quattro file di sedie rosse anch’esse sullo sfondo. Un teatro moderno? No, un’aula preparata da qualche bidello per un colloquio dell’esame di Stato.
Il racconto comincia quando la porta si apre ed entra il candidato, con la sua sporta di libri da mettere vicino alla sedia rossa su cui si siede. Quella sarà la sua scena per circa sessanta minuti, sia che ci arrivi saldo e sicuro dei suoi cinque alberi o insicuro e tremebondo su una scialuppa recuperata in fretta e furia. And the show begins.
Un docente mostra disinvolto un trittico apparentemente impossibile di Matisse, Munch e Picasso, un altro apre cortesemente un volume sull’evidenza di umanità che traspare da un testo di Leopardi, suggerendo nessi ponderati, un altro vuole sapere della libertà in Nietzsche e Hegel, in un fuoco di fila serrato ma amico, un altro sottolinea puntigliosamente nessi e richiami fra generi letterari antichi, ormai perduti alla memoria dei più, come vitali alla coscienza delle generazioni moderne, un altro infine guida pazientemente sulle difficili strade del ragionamento scientifico. Il candidato sposta la sua sedia e la sua sporta da banco a banco fino a che la domanda di rito “Cosa farà da grande?” non segnala la fine di quei sessanta (“Già finito?”) minuti e la sua uscita di scena, magari di corsa, perché è stato duro tener testa alla propria paura, pur con tutte quelle voci amiche, di professori e compagni, nella sua testa, l’eco dello studio condotto assieme.
La porta si è chiusa. Tutti hanno discorso con il candidato, divenuto il fulcro dell’azione di questi professionisti radunati dal caso, ora tutti chini su di lui. Al suo servizio, perché la “maturità” del candidato potesse essere a loro rivelata. Ma tra un punteggio ed un altro, in una pausa caffè o sigillando la porta a fine mattina cominciano a circolare strane parole: “una bibliografia da tenere in conto per il futuro”, “un argomento di inizio colloquio decisamente originale”, “ragazzo interessante ma dai percorsi poco lineari” fino ad uno stupefacente “molto interessante lo stile del collega nell’interrogare”, ed è qui che le orecchie di Ishmael si fanno particolarmente attente. Vale la pena di raccontare.
Non è un tribunale quello che si è lì radunato, pur dando alla fine un verdetto, il punteggio dell’esame di Stato, e non è nemmeno uno show, pur avendo tutti i presenti dei chiari ruoli che tutti hanno coscientemente rispettato. Attorno ad un teenager che desiderava andare in vacanza ed attraversare dignitosamente o splendidamente il Rubicone di questo strano rito di passaggio per accedere alla vita degli adulti è successo che i docenti, lavorando, volenti o nolenti, ma infine volenti in team, si sono accorti dello stile dell’altro o più semplicemente della presenza dell’altro. E ne sono stati felici. Nessun tribunale, nessuno show, ma fare scuola, nel suo vertice massimo per un adulto, che non sta neanche nella pur nobile arte della trasmissione della cultura, ma nel rinverdirsi in lui della scoperta di altri.