Due preoccupazioni uguali e contrarie. La prima, generata dalla diffusione dei principali indicatori demografici del 2013 da parte dell’Istat, accolti con sincera preoccupazione: il crollo demografico del nostro paese, sempre più pesante negli anni, si è fatto l’anno scorso addirittura drammatico. Le nascite nel 2013 hanno raggiunto il minimo storico di 514mila unità, con una ulteriore diminuzione della media di nati per donna – da 1,42 nel 2012 a 1,39 nel 2013 – che neppure l’apporto dell’immigrazione riesce più a scongiurare. 



La seconda preoccupazione, tipica di questo periodo dell’anno, è riemersa quando il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini ha auspicato l’apertura estesa delle scuole anche nel periodo estivo, salvo poi smentire che le dichiarazioni rilasciate avessero un simile intento. Del resto, la proposta era già emersa in passato, in concomitanza con il momento in cui padri e madri si affacciano con angoscia sulla pausa estiva chiedendosi come sistemare i figli minori. Proprio questa risposta, tuttavia, getta una nuova luce sui dati Istat, e accomuna le due preoccupazioni in un’unica, grande difficoltà del nostro paese, che ha a che fare non soltanto con i figli non nati, ma anche con quelli già nati, che non trovano posto in una società e in una cultura come la nostra.



Nell’uno e nell’altro caso abbiamo di fronte un’insufficienza di fronte alla vita: un’incapacità sempre più evidente di accoglierla, ma anche di curarla e prepararle il cammino migliore; educarla, appunto. Quand’anche la coppia italiana capitolasse di fronte al desiderio di un figlio, come sempre meno accade, si troverebbe poi a doversi destreggiare in un contesto lavorativo e sociale che si aspetta che il “problema” della “gestione” del bambino, sin dall’età neonatale, venga gestito e risolto in maniera indolore, insonorizzata, senza turbare alcuno degli equilibri costruiti a misura di adulto. 



Così, pochi tra quelli che hanno applaudito proposte come quella – vera o presunta – del ministro Giannini hanno speso altrettanti sforzi per chiedersi cosa significhi, per i bambini in età scolare, vedersi costretti alla frequenza degli stessi edifici dove hanno passato i nove mesi precedenti, impegnati in attività contigue a quelle, non per loro scelta né – checché si provi a sostenere – per rispondere a un’effettiva esigenza formativa, ma per una necessità genitoriale; simile a quella che li trascina, pomeriggio dopo pomeriggio dell’anno scolastico, da un’attività sportiva a un corso di lingua, più o meno piacevolmente, pur di impegnare le ore che servono a mamma e papà per concludere la giornata lavorativa.

Si tratta di necessità vere, reali, urgenti, senza dubbio: ma non meno reali e urgenti di quelle dei bambini, che tuttavia vengono prese decisamente meno in considerazione. Risposte come quella di Giannini, costruite sull’esistente e per la perpetuazione dell’esistente, rappresentano la via più semplice da percorrere, senza fare alcuno sforzo per identificare un punto di incontro tra bisogni dei genitori e dei figli. 

Una possibile alternativa, in questa chiave, esiste: si chiama smartworking, il “lavoro agile” divenuto una formula sempre più citata dalla stessa stampa, che si spera tuttavia non resti solo materia per bei titoli. Nemmeno questa è la panacea, di certo: non tutti i lavori si prestano ad essere portati a termine indipendentemente dalla sede o dall’orario di lavoro, ma basterebbe cominciare da quelli che già lo consentono per trasformare tante aziende ingessate in realtà organizzative degne di un paese avanzato, in cui il risultato conseguito conta più della pedissequa presenza. Presenza indispensabile, al contrario, per dedicare ai figli il tempo del riposo, dell’affetto, del ritorno; per dare loro il senso della casa e della famiglia, prima ancora che della vacanza.