Sempre più pubblicità di compagnie telefoniche ci bombardano quotidianamente con una presunta verità: essere perennemente connessi è un bene, anzi, una necessità. Acquistando un certo pacchetto internet, anche nel più sperduto campeggio di montagna, tra torrenti e boschi, si può essere ben lieti (!) di estrarre il proprio tablet per seguire la fiction amata o per scaricarsi il film appena uscito al cinema. Non credo che tale connettività perenne sia un bene. Chi ha a che fare con i famosi “nativi digitali” sa bene che la loro intelligenza “multi-tasking” racchiude dei vantaggi notevoli, almeno in potenza, quali la sintesi, l’approccio anche visivo all’apprendimento, la capacità di affrontare una ricerca con una forma mentis multimediale. Ma dal momento che ogni medaglia ha il suo rovescio, vorrei soffermarmi su uno dei rischi di connessione permanente, che potremmo chiamare frammentazione attentiva



La sovraesposizione a stimoli multidirezionali e multimediali, unita alla disponibilità immediata, gratuita e totale di materiali culturali di ogni tipo (film, libri, musica, gallerie d’arte…) comporta una modalità di fruizione mordi e fuggi: nulla che richieda troppo tempo nella sua comprensione e nel suo godimento verrà preso in considerazione, visto che la rete è già stracolma di ogni ben di Dio da mangiare in due bocconi, e visto, soprattutto, che se un messaggio (ad esempio un video) mi blocca per troppo tempo, non osservo più il primo comandamento del nativo digitale, ossia l’aggiornamento costante.



Mi è capitato di riconoscere questo fenomeno parlando di musica con alcuni studenti: ai miei tempi si acquistavano le cassette o i cd degli album del gruppo preferito. Oggi su Youtube sono immediatamente consultabili in pratica tutte le canzoni prodotte negli ultimi cinquant’anni e più dalla civiltà occidentale. Questa differenza di canale ha però comportato una modifica radicale: difficilmente oggi un adolescente si ascolta dall’inizio alla fine Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band o The Dark Side of the Moon, intuendo le logiche e i messaggi sottesi ai concept album. Più spesso, i nostri studenti hanno nei loro cellulari delle miscellanee di canzoni, da cui pescano qui e lì, in un approccio puntiforme.



Parliamo invece di libri: se vivo in uno stato di perenne connessione, è chiaro che anche la modalità di lettura risulterà da ciò influenzata. Un romanzo dell’Ottocento, pensato per un pubblico borghese con parecchie ore da spendere nel proprio salottino, ha bisogno di tempi lunghi, è necessario immergersi nel sistema dei personaggi con calma, calarsi nel contesto storico con la giusta frequenza e la giusta continuità, perché altrimenti, sbocconcellando una pagina ogni tanto, si perde il filo, si lascia indietro la vera ricchezza di un’opera di quel tipo, che risulterà farraginosa e indigesta.

Nella proposta agli studenti delle letture estive, il dilemma che si presenta è quindi semplice: piegarsi alle strutture cognitive imperanti, accontentandosi che gli studenti leggano qualcosa di “facile e immediato” (non necessariamente breve, e non necessariamente “Harry Potter”: Tolkien e Lewis, in questo senso, riscuotono un certo successo, come anche Stoker, Poe o Stevenson), o lanciare il cuore oltre l’ostacolo degli smartphone, e proporre i libri più massicci di Hugo, Mann e Cervantes? 

La risposta, ovviamente, varia al variare dei nostri studenti, e una soluzione mista e mediata non è affatto da scartare. In generale, una sana sfida educativa potrebbe anche includere la fatica della lettura di un classico. Magari giocando su una debita presentazione, le letture potranno venire incontro ai caratteri e ai gusti dei ragazzi. Anche quest’anno ho proposto, al termine di una quarta liceo, alcuni libri a mio avviso irrinunciabili: Madame Bovary di Flaubert; Moby Dick di Melville; Don Chisciotte di Cervantes; I Buddenbrook di Mann; Quo vadis? di Sienkiewicz; L’uomo che ride di Hugo.

Confesso di aver fatto una scelta non solo di bellezza e di “classicità”, ma anche di semplice lunghezza fisica del libro, proprio nella speranza che qualche ragazzo sperimenti, oltre al tempo frammentato e alla perenne disponibilità on-line, il fascino di una sana solitudine letteraria, l’occasione, che forse solo durante le vacanze delle scuole superiori e poi durante la pensione può essere vissuta appieno, di una giornata trascorsa senza guardare l’orologio, senza ascoltare il cellulare, dimenticandosi anche del pranzo, inseguendo i mulini a vento della Mancha o le follie di Achab.

Più di qualcuno, al rientro a settembre, spesso mi ha fatto presente, a modo suo (“Madame Bovary fa schifo!”) che Flaubert non è, o non è ancora, nelle sue corde, e qualcun altro, onestamente, mi ha detto di non aver avuto tempo o voglia di leggersi quei mattoni. Ma contrariamente a quanto si possa ipotizzare, questi “insuccessi” sono minoritari, a fronte di molti studenti che nella migliore delle ipotesi apprezzano il libro, partendo da lì per itinerari personali (a questo punto il lavoro del docente si può dire finito) o, almeno, lasciano il romanzo a un quarto o a metà, abbandonandolo perché in quella fase della loro vita “non gli ha parlato”. Il passo più importante però, ossia l’avere a disposizione un grande classico in libreria o nell’e-book reader, intanto è stato fatto. Il tempo, in queste cose, è galantuomo.