Per molti bambini la penna rischia di diventare solo un ricordo. Fino a 30, 40 anni fa si scriveva in corsivo omogeneo, a scuola si imparava la bella calligrafia e i mancini erano osteggiati. Ora perfino Barack Obama scrive con la sinistra, ma c’è chi fa subito notare che, destra a sinistra, i giovani nelle classi di oggi hanno difetti di impugnatura e problemi posturali, e che impugnature scorrette sono spesso all’origine della disgrafia, uno dei disturbi specifici di apprendimento (Dsa). Molte le domande che si pongono a questo punto, e che vanno bel al di là di una scrittura comprensibile. Ne abbiamo parlato con Daniela Lucangeli, docente di psicologia dello sviluppo nell’Università di Padova, nota a livello internazionale per le sue ricerche sui disturbi dell’apprendimento.
Professoressa, la scrittura è solo fatto estetico?
Sì e no. La scrittura come processo di pianificazione delle idee è indipendente dagli aspetti di produzione calligrafica. Invece nei tempi che sono stati privi di strumenti tecnologici l’unico modo con cui la scrittura poteva “corrispondere” al pensiero era quello calligrafico. Ma il cervello è in grado di organizzare competenze diverse. Poi, che ci possa o meno piacere, è un’altra cosa.
Con questo cosa intende dire?
Che il nostro sistema cognitivo non solo è enormemente complesso, ma anche straordinariamente flessibile, e al variare degli strumenti variano le competenze. Tra una penna e un pc, il processo cognitivo dal punto di vista del pensiero è simile, ma la sua realizzazione chiede competenze diverse.
Una è meglio dell’altro?
La domanda è sbagliata. Sarebbe come chiedersi se è meglio, in assoluto, usare una scarpa da ginnastica o una col tacco 12.
Allora potremmo dire che scrivere a mano e mediante una tastiera sono due diversi modi di manifestazione del medesimo pensiero…
La parte della scrittura come elaborazione del pensiero dipende essenzialmente da tre fasi, che la ricerca cognitiva ha descritto così: la raccolta delle idee, la loro pianificazione, e l’applicazione a diverse modalità di manifestazione. Intesa questa sia come scrittura a mano, sia come scrittura a macchina, o anche dettata. La fase di produzione è una fase che chiamiamo articolatoria, ma è periferica rispetto alla produzione del pensiero.
Scrivere è necessario a pensare?
È una domanda suggestiva che va precisata, altrimenti si alimentano falsi concetti. L’intelligere – è meglio chiamarlo così invece che “pensare” – lo si può spiegare con una metafora basata su tre direzioni. Quando apprendo cose nuove, la direzione è “da fuori a dentro”. Una direzione che corrisponde all’alfabetizzazione, all’istruzione, all’informazione. Quando penso a qualcosa che mi è chiaro, la direzione è “da dentro a fuori”. Ma in mezzo, tra le due, c’è la fase del flusso dell’intelligere più importante di tutte: “da dentro a dentro”. Cioè la trasformazione di ciò che non mi è chiaro e non so ancora in qualcosa che mi diviene chiaro e “trasformato”, attraverso le mie conoscenze, in un patrimonio che possiedo.
Sembrerebbe la maggior parte dell’attività cognitiva della vita di un adulto.
No, di tutta la vita. Il “da dentro a dentro” è la fase fondamentale, trasforma ciò che non sappiamo in ciò che sappiamo e che utilizziamo per pensare. Nei processi dentro-dentro, che si chiamano cognizione attiva, rientrano anche i processi di scrittura intesa come pensiero espresso; nella quale io non faccio altro che trasformare continuamente e rendere esplicita questa mia possibilità di “portar fuori” ciò che ho trasformato sulla base delle mie risorse e caratteristiche individuali. Lei ora sta trasformando le cose che io le sto dicendo, attraverso ciò che già sa e pensa, in qualcosa di diverso da quello che le sto dicendo. Il risultato è il suo contirbuto individuale alla cultura condivisa.
A volte si ha la sensazione di essere come bloccati: ad esempio quando vogliamo mettere in forma scritta (al di là del mezzo impiegato) le idee che abbiamo nella testa.
È uno dei fenomeni più frequento che ci accadono, perché per metterle in forma scritta non basta semplicemente “tirarle fuori” così come vengono, ma occorre pianificarle e questo è un processo fondamentale. Occorre cioè metterle in una sequenza logicamente utile all’obiettivo dello scrivente. La fase fondamentale dello scrivere, diversa da quella del parlare, è che nel parlare seguiamo un flusso di pensiero che non possiamo modificare più di tanto. Nello scrivere noi quel flusso lo possiamo manipolare, pianificandone i passi, rivedendoli, migliorandone l’efficacia. Mentre nel parlare il flusso è di tipo prima-dopo, consequenziale, nella scrittura gli aspetti logici − modali, causali, spaziali, relazionali − possono essere controllati dal soggetto e pianificati. Donde la difficoltà.
Dunque la parte più importante è il dentro-dentro ovvero la trasformazione attiva. Sta qui il legame necessario tra pensare e scrivere?
Non completamente. Il vero rapporto necessario non è tra pensare e scrivere, ma tra pensare e pianificare le proprie idee. La scrittura è un mezzo che consente di revisionare e monitorare le proprie idee. In questo senso è fondamentale e ha una specificità straordinaria.
Un po’ come prendere appunti per organizzare le idee, è così?
Prendere appunti significa in realtà seguire le idee nella velocità con cui vengono, fermandole. Ma è solo un momento nella pianificazione, perché una volta presi gli appunti, occorre dar loro una forma logica corrispondente agli obiettivi dello scrivente. Mentre le parlo non posso organizzare le idee, devo continuamente riprendere il discorso, fare incisi, tornare indietro. Invece se glielo scrivessi, potrei rimodularlo in maniera sintetica e funzionale.
Che posto ha nella formazione di uno studente questa estrinsecazione attraverso la scrittura?
La scrittura è uno dei processi che consente di maturare meglio la capacità autonoma di ciascuno di esporre le propri idee nel migliore dei modi possibili. È uno dei mezzi con cui l’intelligenza umana esprime la propria specificità e individualità nella cultura condivisa. Io e lei siamo due scriventi italiani, ma nel descrivere la scrittura lei lo fa in maniera diversa da me. E lo arricchisce delle sue caratteristiche individuali di conoscenza e di emozione.
Di emozione, dice?
Sì. Mentre nel parlare le emozioni implicite di solito sono non verbali, ma paraverbali, accompagnano le parole con i toni e i comportamenti, cioè mentre parlo non riesco a espriemere se non verbalmente ciò che accompagna il mio pensiero, quando scrivo, invece, posso scrivere ciò che penso e sento anche da un punto di vista emotivo.
Ma smettere di scrivere comporta una diminuzione della capacità di pensare?
Questa assunzione è troppo forte. Poiché però scrivere è un fattore facilitante per la vita del pensiero, dal punto di vista tecnico il pensiero non viene ostacolato, però può risultare impoverito. Una società che scrive poco è una società che produce una rivisitazione delle proprie idee molto più povera di una società che scrive molto. Rielabora meno le proprie idee.
Alla luce di tutto questo l’espressione “scrittura corretta” ha un senso o no?
Con l’etichetta scrittura corretta si confondono precisamente i tre livelli. Quella di cui le ho parlato finora è la scrittura come pensiero. Poi c’è la scrittura come trascrizione ortografica, che implica la conoscenza delle regole grammaticali, infine viene la scrittura come trascrizione calligrafica e questo implica i codici motòri. Vuol dire che tra la scrittura in stampatello e quella corsiva la differenza è di apprendimento motorio.
Quindi?
Quindi io non mi metterei mai i tacchi a spillo per fare chilometri… Non che le scarpe coi tacchi a spillo siano sbagliate, ma è meglio usarne altre; però ad una serata di gala è preferibile andare coi tacchi anziché con le scarpe da ginnastica. La calligrafia in alcuni casi aiuta (rende più chiaro a chi legge), ma in altri casi affatica lo scrivente, perché gli toglie risorse attentive. Come nel caso di un bambino che sottrae l’attenzione che serve per seguire bene, dedicandola alla bella calligrafia.
Ma è utile o no? Una volta si era obbligati a scrivere bene.
La bella calligrafia è sicuramente un apprendimento utile, perché rende chiaro anche a chi scrive cos’ha scritto. Dall’altro, però, mettere troppa attenzione sulla calligrafia, con i bambini che hanno risorse cognitive più deboli, rischia, come con una coperta troppo corta, di spostare queste risorse preziose sugli aspetti periferici della scrittura e non sugli aspetti profondi.
Come si sentirebbe di giudicare quanto avviene oggi nel quinquennio della primaria rispetto a ieri?
Ci sono nella scuola tante esigenze forti che vanno riviste insieme. La prima è capire che la scuola del primo ciclo è in una fase plastica che per lo sviluppo cognitivo è straordinaria. Un buon insegnante può ottenere dallo sviluppo cognitivo di un bambino il massimo di potenziale, che noi riceviamo dagli aspetti genetici (genotipo): noi riceviamo cioè un’eredità che non è una quantità fissa di funzione… ma funzione modificabile a seconda di come viene esercitata. La scuola ha la possibilità di rendere plastiche le funzioni, migliorandole al massimo, ma se lo fa fissandosi su aspetti che sono utili ma non sono il cuore del processo, sbaglia. Contemporaneamente però, se non fa mai attenzione agli aspetti periferici, come la calligrafia e l’ortografia, non istruisce.
Non bisogna trascurare nulla, insomma.
O trascurare il meno possibile. Le direzioni sono due; sono compresenti, e l’errore maggiore viene dal fraintendimento degli obiettivi o da una loro confusione. La funzione fuori-dentro è l’alfabetizzazione. Ma quella fondamentale è quella dentro-dentro, la trasformazione cognitiva, l’arricchimento del pensiero. Piuttosto che soffermarsi sul fuori-dentro, sul dare informazioni, occorre trasformare le prestazioni passive in risorsa per il pensiero.
Nel caso della scrittura, cosa vuol dire?
Significa certamente fare attenzione agli errori ortografici e alla calligrafia, ma soprattutto fare attenzione a che i bambini imparino ad autoregolare i propri pensieri e a pianificarne l’esposizione chiara agli altri. Se la scuola non educa queste tre fasi insieme, risulta incapace di guidare quella risorsa straordinaria che è l’intelligenza umana. Tutte le posizioni di parte − che dicano cioè questo è giusto, il resto no − sono pregiudizievoli.
Mettiamo a confronto due generazioni, padre e figlio. Il primo rimpiange che il figlio non faccia più le aste.
Il cambiamento che stiamo vivendo ha una velocità di modifica rispetto al passato di 2 a 8. Vuol dire che nei prossimi due anni tutti i fenomeni che ci riguardano evolveranno nel modo in cui questo è avvenuto negli ultimi otto. Significa che i bambini che arriveranno a scuola tra cinque anni, se noi non facciamo nulla, avranno un ritardo generazionale corrispondente a 8, 16, 20 anni. Siamo in un tempo di accelerazione progressiva continua e non possiamo più permetterci di non seguire il cambiamento.
Altrimenti?
Altrimenti, se non seguo il cambiamento, non lo guido.
Questa è una sua opinione.
No, è un dato sperimentale. Non possiamo cominciare dalla A di ape senza essere consapevoli che abbiamo risorse diverse da un punto di vista umano. Con questo non intendo dire che la scuola deve perdere il rapporto con quelli che sono i suoi aspetti classici, profondi − o ritenuti tali. Ma che il cambiamento è un dato fenomenologico.
Anche lei è convinta dell’esistenza di “nativi digitali”?
Sì, anche se la parola “nativi” è fuorviante. Sono bambini digitali non perché escono “diversi” dal ventre della loro madre, ma perché è diverso il contesto nel quale sono subito immessi; un contesto profondamente segnato dalle tecnologie che filtrano l’ambiente. Il tempo in cui viviamo genera bambini con caratteristiche cognitive, emotive e relazionali diverse dalle generazioni di 60 anni fa. Il fenotipo, il fuori-dentro, è oggi diversamente determinante. Quel fuori nutre il pensiero, le competenze, le emozioni in modo del tutto diverso rispetto al passato. Tendiamo a dimenticarlo.
Può fare un esempio?
60 anni fa un bambino spendeva la maggior parte del suo tempo all’aria aperta, giocando, in campagna, e il massimo della tecnologia che aveva erano dei bottoni con i quali poteva giocare, facendo esperimenti di fisica ingenua: il lancio del bottone… il tiro del bottone… la rotazione del bottone… eccetera. Questo era lo stimolo del contesto. Generava creature meno intelligneti? Assolutamente no. Ma oggi quel contesto è mutato e con esso gli stimoli cognitivi cui un bambino risponde.
Che opinione ha della scuola italiana?
La mia corrispondenza personale con centinaia di insegnanti mi attesta che c’è una scuola di eccellenza e di grandissima motivazione. Al tempo stesso, seguo centinaia di bambini con difficoltà di apprendimento. Vede, il nostro cervello apprende e si modifica in millesimi di secondo. Millesimi per centesimi, decimi, secondi, minuti, ore, giorni, settimane, mesi, anni che un bimbo sta a scuola: ecco la misura sperimentale del potenziamento delle funzioni. Se la scuola sapesse come fare, si immagina quanto meglio starebbero i nostri figli? Non c’è nessuno più convinto di me, scientificamente ed eticamente, di quanto potente sia la scuola.
E come la vorrebbe?
Con la passione di trarre il meglio da ogni bambino. Vorrei una scuola che la smettesse con un modello di addestramento passivo di verifica delle prestazioni, una che non scambiasse il proprio giudizio autoriale (fai come ti ho detto, se non lo sai fare sei un ignorante) con un contributo proprio alla crescita di ciascuno. Noi procediamo per approssimazione, di errore in errore, verso la realtà. Il ruolo della scuola non è di misurare l’errore, ma di aiutare i bambini ad uscirne per mezzo di strategie che li migliorano. Quanti docenti sono ancora talmente impegnati a trovare l’errore, a misurarlo e a valutarlo, da occuparsi solo di esso? È questo il vero errore!
(Federico Ferraù)