Il primo ciclo dei PAS (Percorsi Abilitanti Speciali) si avvia al termine. Entro il 31 luglio vedrà il compimento la maggior parte dei percorsi attivati presso le sedi universitarie italiane nell’a.a. 2013/14, con la discussione degli elaborati e il conferimento dell’agognata abilitazione a circa 20mila neo-insegnanti.
Suona un po’ strana la dicitura “neo-insegnanti” dal momento che queste persone lavorano da oltre tre anni con contratti annuali, alcuni anche da più di 10; ma per lo Stato italiano un insegnante è tale solo se ha conseguito un titolo abilitante post laurea ottenibile solo con un altro corso universitario, col quale poter poi sperare di entrare nei ruoli dopo aver superato un concorso. Nonostante la lunga “gestazione” delle riforme per l’accesso all’insegnamento (l’ultima stagione è iniziata nel ’99), non sono ancora state definite in modo univoco le competenze necessarie. Perciò, negli ultimi tre anni, durante i quali sono stati attivati i percorsi formativi per abilitare all’insegnamento TFA e PAS, in assenza di precise indicazioni da parte ministeriale ogni ateneo ha elaborato autonomamente un proprio percorso di abilitazione. Nonostante il titolo finale abbia valore nazionale, sono stati messi in campo una quantità di corsi solo nominalmente confrontabili. Corsi che spesso sono risultati improvvisati e organizzati sulla base delle idee ed esperienze dei singoli docenti: diversi i contenuti e la didattica, carenti se non addirittura assenti gli insegnamenti sull’accoglienza delle disabilità, sui bisogni educativi speciali e sulla normativa scolastica.
Chi ha partecipato a questi corsi si è visto costretto a subire una programmazione improvvisata e lacunosa, inadeguata a quella innovazione didattica e metodologica necessaria ad una scuola moderna ed efficace. Ore preziose sprecate nella riproposizione di argomenti dei percorsi accademici ordinari – già studiate e, a suo tempo, valutate –, con didattiche accademiche non spendibili nelle programmazioni delle scuole secondarie e assolutamente parziali rispetto alla molteplicità delle discipline afferenti alle classi di concorso. Gli atenei, arroccati nelle loro posizioni accademiche, si sono dimostrati ancora una volta incapaci di dialogare con il mondo della scuola, più che altro attenti ad incamerare i cospicui introiti delle tasse universitarie. Un disastro per i corsisti che hanno dovuto barcamenarsi fra lavoro in classe al mattino e lezioni universitarie in presenza al pomeriggio, costretti all’unica preoccupazione dell’obbligo di firma sia all’entrata che all’uscita. Una delusione per quanti attendevano da questo momento formativo la possibilità di acquisire quelle conoscenze socio-pedagogiche sempre più necessarie per affrontare le multiformi dinamiche giovanili.
In materie complesse come pedagogia e sociologia nella maggior parte dei casi sono state propinate lezioni sommarie, concentrate in moduli di poche ore, che si sono poi necessariamente risolte in nozioni disorganiche da imparare a memoria per poter superare gli esami e conseguire i fatidici crediti per il punteggio finale. Cumuli di pagine di documentazione da studiare per ciascun esame (900 pagine e più) che però non venivano affrontate a lezione, perché i docenti preferivano utilizzare altro materiale e spiegavano altri argomenti, non oggetto di verifica finale. Addirittura, in alcuni casi, sono state assegnate presentazioni relative ad altri corsi universitari che niente avevano a vedere con i percorsi formativi per gli insegnanti. Non pochi docenti hanno riciclato proprio materiale didattico senza nemmeno adeguarlo alla peculiarità del corso, ritenendo che insegnare a matricole o studenti universitari sia esattamente la stessa cosa che rivolgersi ad adulti, insegnanti con anni di esperienza in classe, portatori di conoscenze “sul campo” che avrebbero potuto arricchire le lezioni, con i quali si sarebbe potuto dialogare e approfondire le dinamiche educative, trovare nuove soluzioni. Oltre il danno anche la beffa: i corsisti in tal modo si sono sentiti trattare come ignoranti e incompetenti – come se non si fossero mai laureati! –, gravati nuovamente da esami già sostenuti nel proprio percorso accademico originario.
E ancora, pochissimi sono stati i corsi che si sono confrontati con le nuove indicazioni didattiche e metodologiche contenute nella riforma della scuola secondaria. Un paio di esempi per tutti: nel percorso delle classi di abilitazione A020 (Discipline meccaniche e tecnologia) e C320 (Laboratorio meccanico-tecnologico) dell’ateneo di Pisa, anziché impartire nozioni di Disegno Industriale il corso si è risolto esclusivamente in esposizione di argomenti di geometria descrittiva e composizione di solidi; tutti temi che esulano completamente dalla classe di concorso specifica e dagli insegnamenti impartiti nelle scuole dove questa classe di concorso è impiegata. Sempre a Pisa, nella classe di concorso A033 (Educazione tecnica nella scuola media) è stato inserito un modulo di “Organizzazione industriale e automazione dei processi produttivi”, anche se nelle Indicazioni per il curricolo della secondaria di I grado questi argomenti non compaiono affatto.
S’è persa un’altra grande occasione per formare adeguatamente un patrimonio umano prezioso – quello dei nuovi docenti – che a loro volta sono chiamati a dare un futuro alle giovani generazioni. Come si può pensare di rinnovare la scuola italiana se non ci si preoccupa di formare i formatori, se la formazione degli insegnanti viene lasciata al caso o all’intraprendenza di qualche rettore che decide di attivare alcuni corsi solo se trova degli insegnanti che accettano l’incarico e non perché quei corsi sono effettivamente strategici nello scenario del fabbisogno organico della scuola, se i programmi della formazioni sono scelti in base alle conoscenze, più o meno datate, dei docenti e non alle effettive esigenze di una scuola adeguata alle sfide del presente? Dobbiamo ancora affidarci alla buona volontà di quei pochi insegnanti ed operatori della scuola che, per vocazione e coscienza, continuano a studiare e aggiornarsi a proprie spese? Ci si deve cioè rassegnare a rimanere ancora lontani da una organizzazione strategica di crescita e rinnovamento del sistema scuola paragonabile a quella che c’è in altri Paesi europei, incapaci di portare i nostri giovani al passo con quelli delle società più avanzate? Sembra proprio che chi guida e governa la scuola italiana abbia ancora molto da capire; e da fare.
Intanto, il tributo in termini di fatica fisica, stress emotivo e oneri economici pagato da ogni “neo-insegnante” solo per conseguire l’abilitazione è stato così alto che sarà difficile dimenticarlo, con tutto quel che ne conseguirà in termini di malcontento, che – è facile prevedere – si riverserà anche nel lavoro in classe. Ma a questo nessuno, né chi ha scritto la normativa dei corsi, né chi ha organizzato i percorsi o li ha svolti, ha minimamente pensato.
Eppure sarebbe bastato guardare ad un orizzonte più ampio per rendere questa occasione una grande opportunità di crescita. Un peccato, davvero.