Lascia o raddoppia: lasciare le cose come stanno o raddoppiare il numero di ore settimanali di servizio dei docenti a 36 ore. Con la stessa retribuzione per i più e con incentivi economici per i docenti più impegnati in funzioni e ruoli all’interno delle scuole. E a costo zero per l’amministrazione pubblica.
Pare essere questa la logica del nuovo “gioco” che il Governo, nelle anticipazioni del sottosegretario Reggi a Repubblica del 2 luglio, sembra voler proporre per chi gioca la grande partita dell’istruzione.
Ma si gioca o si fa sul serio? Un nuovo Risiko, da lanciare sul mercato dell’istruzione alla conquista di nuovi spazi per la flessibilità e per la conquista di nuovi territori di libertà per chi a scuola ci vive, o l’ennesimo annuncio cui il governo Renzi ci sta abituando? La proposta del Governo del nuovo “Piano per la scuola”, di cui si attende in questi giorni la presentazione dei dettagli, divide e spariglia. Forse volutamente.
Nell’attesa, il credito alla proposta è d’obbligo. Non foss’altro perché al bene della scuola tutti ci teniamo e, soprattutto, desideriamo veder valorizzati coloro che la scuola la fanno: presidi e docenti.
Veniamo alle luci.
1. La considerazione dell’insegnamento come professione e non come impiego: riconoscere la diversificazione di orari di servizio e di funzioni dei docenti nell’elaborazione dell’offerta formativa con opportune differenze di retribuzione è faccenda che da anni si invoca, nella speranza che ciò dia fiato a spazi di libertà di iniziativa, di soggettività, di presenza che molti operatori della scuola già realizzano, ma, ad oggi, dentro le maglie strette di un contratto che risale oramai al lontano 2007.
2. la proposta di accelerare lo svuotamento delle vecchie graduatorie ad esaurimento con gli attuali 154.398 iscritti e la sparizione delle graduatorie d’istituto, cariche di 467mila precari.
3. La possibilità che i dirigenti scolastici vedano riconosciuta una maggior libertà organizzativa scegliendo personale qualificato attraverso il conseguimento di una laurea magistrale, un tirocinio (vero) di formazione sul campo, una specifica abilitazione ed infine il superamento di un concorso per entrare in un albo a disposizione delle scuole, è auspicio sostenuto da tempo da (quasi) tutte le associazioni professionali.
4. Il miglior utilizzo del personale scolastico nei periodi di sospensione delle lezioni, secondo moduli che ciascun istituto potrà stabilire, in attuazione di quella flessibilità già prefigurata fin dal 1999 dal Regolamento della autonomia scolastica.
E ora veniamo alle ombre.
1. Il timore che all’annuncio (neanche troppo silenzioso) del nuovo Piano della scuola, da trasformare come annunciato in legge delega al Governo quale formula più veloce per raggiungere l’obiettivo dell’innovazione, seguano mesi di melina politico-sindacale, proliferazione di decreti, regolamenti e linee guida con tempi così lunghi da spegnere fin sul nascere questo strano, ma suggestivo, impeto per il nuovo.
2. E poi quell’immagine di “scuola come cantiere sociale” e contenitore fino a tarda notte della vita dei nostri giovani, mentre la vita (ed il lavoro) scorre altrove…
Nell’attesa di leggere ciò che sarà basterebbero, da deliberare, queste sì, in un solo Consiglio dei ministri e a costo zero, poche cose, ma concrete: l’organico funzionale che, con l’eccedenza di qualche cattedra in più riconosciuta a ciascun istituto, risolverebbe almeno in parte il tema delle supplenze brevi, delle cattedre a 18 ore, delle attività di arricchimento dell’offerta formativa; uno stato giuridico autonomo ed una progressione della carriera dei docenti che tenga conto anche delle competenze e della valutazione del merito; l’abolizione del valore legale del titolo di studio, sostituito da certificazioni oggettive e standardizzate degli apprendimenti; l’avvio fin dal 1° settembre prossimo di un sistema nazionale di valutazione già previsto dal Dpr 81/2013 con una rilevazione standardizzata, e quindi, comparabile, degli apprendimenti; l’accreditamento delle risorse finanziarie pubbliche erogate dallo Stato o dall’ente locale alle istituzioni scolastiche autonome (statali e paritarie) attraverso il criterio della quota capitaria, individuata in base al numero effettivo degli alunni iscritti a ogni istituzione scolastica, tenendo conto del costo medio per alunno e di criteri di equità e di eccellenza.
Pocheti, ma tocheti, dice un antico adagio, noto ai più. Più realisti del Re(nzi), insomma. È chieder troppo?