La maturità che si è appena conclusa mi ha dato la possibilità di vivere un momento doppiamente finale. In senso generale, perché l’anno prossimo va a regime la scuola riformata; tutti sappiamo che l’attuale struttura degli esami è in buona parte incompatibile con i nuovi percorsi, anche se a livello centrale rimangono inascoltati i molti appelli a decidere il da farsi. Nel caso particolare, la nostra commissione ha esaminato gli ultimi studenti dell’Istituto d’arte “Melotti” di Cantù, da ora definitivamente liceo artistico.



Il centro della Brianza comasca è celebre per alcuni settori artigiani, in primis quello del mobile e dell’arte del legno. La scuola che li formava era nata nel 1882 su iniziativa della Società di Mutuo Soccorso, sviluppandosi poi fino a Istituto Statale d’Arte. Come in molte altre realtà della provincia italiana, una scuola molto radicata nella società e che ha contribuito alla crescita di quella parte del Made in Italy che autenticamente unisce gusto e qualità.



Per dare il senso di cos’erano scuole simili nel tempo che fu, ricordiamo che l’istruzione obbligatoria un secolo fa si fermava alla terza elementare, poi giunse alla quinta. Chi restava tra i banchi fino ai quattordici anni, nel suo piccolo, “aveva studiato”, perché ancora nel dopoguerra i più non frequentavano la scuola media o l’avviamento professionale; chi poi faceva tre ulteriori anni nelle scuole d’arte aveva ben ragione di fregiarsi del titolo di “maestro”. 

Coi rapidi mutamenti della società, la media unificata, la scolarizzazione di massa, le scuole professionali e d’arte introdussero le integrazioni quinquennali, finalmente con la possibilità di accedere ai livelli universitari. Ma quando studiare fino al diploma cominciò ad essere la regola, inevitabilmente l’utenza di queste scuole non riguardò più una specie di élite del mondo operaio ed artigiano: si allargò verso la fascia che si ritiene più “debole”, quelli che prima si sarebbero fermati all’istruzione di base.



La scelta era tra adeguare i vecchi percorsi ad un contesto nuovo, o lasciarli per puntare verso un “liceo”. In termini più comprensibili, da una parte un quadro orario che privilegi le attività di laboratorio, supportate dagli approfondimenti teorici in poche aree funzionali e definite, come chimica e tecnologia dei materiali, tecniche di progettazione e simili. Dall’altro, una didattica in cui il laboratorio risulta accessorio e la formazione generale spazia su un numero elevato e frammentato di discipline dall’impostazione accademica.

Non sto a insistere sulla tendenza nazionale a “licealizzare” tutti i percorsi, sulle ragioni ideologiche e di costume da cui trae origine, incluse le esigenze corporative di certe porzioni della classe docente. Le stesse che ci portano a supporre armate con più colonnelli e generali che soldati semplici. Tuttavia si contraddice un’esigenza che, a parole, tutti sostengono. Quella di dare ad ogni studente la possibilità di un percorso formativo personalizzato, adeguato ai diversi momenti della sua crescita, che non sono uguali per tutti. 

Non serve a molto riconoscere che esistono tante forme di intelligenza, ognuna delle quali ha tempi di sviluppo diversi per ogni persona, se però alla fine rimane una struttura gerarchica in cui la dignità maggiore spetta sempre e comunque all’apprendimento libresco. Poco importa se, per uniformare tutti a questo modello, lo si debba necessariamente livellare verso il basso, con un danno anche per chi vi sarebbe maggiormente portato.

Ho seguito a tratti, nel tempo, il dibattito molto acceso che ha riguardato la scuola di Cantù, ma che si è riproposto analogamente anche in altre aree. Vent’anni fa lo vedevo da giovane supplente, quando partiva l’allora “progetto Michelangelo”. Non ero certo il solo a dire che conformare tutto al taglio liceale pareva una scelta velleitaria, figlia di un’ideologia già vecchia. La pensavano così diversi insegnanti e molte famiglie (e studenti), poco disposti a rinunciare ad una formazione operativa di qualità, che comunque non precludeva la possibilità di crescere con un ulteriore percorso formativo, a fronte di una preparazione “generalista” tutta da dimostrare. Poi le cose sono andate diversamente; di fronte alle scelte imposte dalla riforma Gelmini, a livello nazionale molti istituti sono andati nella direzione della pluralità, altri hanno optato per la sola scelta liceale. Il futuro dirà chi aveva ragione.

Nel frattempo, intorno crescono i corsi di formazione professionale: per i giovani che desiderano imparare le basi (conosco anche brillanti realtà attente a valorizzare i talenti di ognuno, pochi o tanti che siano) oppure quelli specialistici per chi “ha già studiato”. Manca il percorso educativo centrale, così come manca per le altre specializzazioni che venivano offerte da una scuola storica (attenzione, da sempre pubblica: solidaristica, civica ed infine statale).

Mi diceva una collega: hanno voluto chiudere noi per dare spazio ai “privati”. No, è il contrario: è il mondo intorno, la società, a voler colmare il vuoto lasciato da chi poteva crescere rammodernando la tradizione, ma ha ritenuto fosse opportuno scegliere altre vie.

Forse settori artigianali come quello di legno e arredo, o altri che caratterizzano analoghe realtà, sembrano maturi, con poche prospettive di sviluppo (e non è vero). Ma guardiamo a tanti settori che sono ancora “nuovi” e sentono un gran bisogno di qualità del lavoro, per tutte le figure coinvolte. Un esempio per tutti, l’architettura ad alta efficienza energetica. Chi deve installarvi le coibentazioni, gli impianti, i serramenti, non può avere una preparazione minimale acquisita sul campo, senza quel po’ di consapevolezza culturale: perché – con i soliti esempi a quattro ruote – un edificio in classe E o F ha la tecnologia di una 127, per metterci le mani basta poco; però uno in classe A è come una nuova auto ibrida, e per non mandar tutto in malora devi mettere competenza in ogni dettaglio. Pur senza essere arrivato alla laurea.

Non ci insegna niente il fenomeno ormai evidente della “rilocalizzazione”, delle aziende che avevano sfruttato i bassi costi della manodopera in orienti vicini o lontani, e che ora ritornano qui perché capiscono che la scelta vincente è la qualità? E i valori della sicurezza e dell’ambiente, l’innovazione nei materiali e nelle certificazioni, dove possono essere meglio appresi se non in un percorso scolastico che parta dalla realtà della produzione ma non si limiti alla sola parte esecutiva?

Ed allora eccoci qui, ai nostri ultimi diplomati del legno, dell’arredo e della decorazione, che se avevano scelto il vecchio percorso anziché le alternative “di tendenza”, una qualche idea sul proprio futuro dovevano pur averla. Alcuni hanno già deciso di inserirsi nel lavoro, in un comparto che offre concrete possibilità. Altri sono intenzionati a proseguire gli studi, non necessariamente secondo il percorso canonico. Più d’uno valuta la scelta di sospendere per un po’ lo studio, crescere per un certo periodo in azienda o in un atelier, poi decidere quale sarà la prossima tappa della propria ulteriore formazione, magari all’estero. Significa aver capito cos’è l’oggi e scommettere su un futuro in cui, anche nel settore manifatturiero ed artigianale, sarà vincente chi saprà vivere i cambiamenti. 

Molti tra questi giovani amici vedranno l’alba del 2100, i più staranno ancora lavorando nel 2070: chissà, al termine di un percorso che sarà diverso per ognuno, con che sorriso guarderanno ai ricordi di una mentalità così impolverata, così novecentesca, “prima vai al liceo e tenti l’università, poi speri in un posto fisso in un ufficio, poi c’è la pensione…”.