Si sono chiuse, alla fine di luglio, quasi tutte le sessioni dei cosiddetti percorsi abilitanti speciali (Pas), a cui ha potuto accedere il primo contingente di coloro che avevano prestato servizio per almeno tre anni nelle istituzioni scolastiche, compresi tra l’a.s. 1999-2000 e il 2012-2013, e nei CFP dal 2008 in poi (68.892 aspiranti di cui circa 23mila per la scuola del primo ciclo e circa 45mila per la secondaria).
Nel decreto di riapertura delle graduatorie d’istituto (DM n. 353/2014) non era prevista alcuna iscrizione in seconda fascia per i corsisti Pas; dopo numerose proteste dei “passisti”, il ministro ha firmato il DM n. 375 del 6 giugno 2014, con il quale ha autorizzato l’iscrizione con riserva in seconda fascia delle graduatorie di istituto anche agli aspiranti “già iscritti ad un percorso abilitante, che conseguono il titolo di abilitazione entro il 31 luglio 2014” (art. 1).
Si è quindi concluso il primo ciclo di un percorso che, fin dall’inizio, ha suscitato molte polemiche, dal momento che i corsisti del Tfa si sono sentiti equiparati (se non scavalcati) dai colleghi che hanno potuto frequentare i percorsi abilitanti senza il superamento della lunga trafila delle prove selettive previste per il tirocinio formativo ordinario.
Non vogliamo ora entrare nel merito della questione. Ci preme invece sottolineare almeno quattro aspetti che sono venuti a galla durante lo svolgimento dei corsi.
La difficoltà del percorso – I docenti hanno dovuto frequentare i corsi che, nella maggior parte dei casi, gli atenei sono riusciti ad erogare solo tra febbraio e maggio: molti provenivano da luoghi molto lontani rispetto alla sede universitaria e non hanno avuto nemmeno il tempo di addentare mezzo panino tra il termine del servizio scolastico e l’inizio delle lezioni. Senza considerare il fatto che ognuno di loro aveva la propria classe da seguire, gli adempimenti finali da espletare, i compiti da correggere, e così via. Alcuni atenei – e anche in questo caso, occorre sottolineare le debite eccezioni – non hanno nemmeno rispettato la norma che stabiliva la necessità di andare incontro a chi stava lavorando, posizionando i corsi nei pomeriggi infrasettimanali e al sabato e, soprattutto, evitando la concentrazione in pochi giorni di corsi ed esami.
La mancanza del tirocinio e la prevalenza della teoria – Il decreto istitutivo prevedeva solo la frequenza di corsi teorici, perché, come aveva affermato l’allora ministro Profumo, gli anni di insegnamento erano già un tirocinio: peccato che, anche per chi insegna, la riflessione sul proprio lavoro sia fondamentale e che, anche in questi corsi, ciò che è mancato è stata proprio la forza propulsiva che nasce dal riflettere sulla didattica attiva, su ciò che succede veramente in classe.
Le lezioni più apprezzate sono state proprio quelle che hanno saputo declinare teoria e pratica, senza mai disgiungerle: purtroppo ancora una volta − complice lo stesso decreto − molti atenei o singoli docenti hanno elargito a piene mani molta teoria, sia disciplinare, sia legata alle materie trasversali (pedagogia, didattica, psicologia, multimedialità…), ricadendo nell’errore − ormai cronico − di offrire, ai corsisti dei percorsi abilitanti, grandi quantità di teoria, o già conosciuta o, seppur affascinante, poco spendibile in classe. È questo un nodo fondamentale, che occorrerà sciogliere in qualche modo, per rendere ealmente produttivi i corsi abilitanti − a meno che li si voglia considerare solo un pedaggio da pagare alla burocrazia omnivora del Bel Paese.
La valutazione dei corsisti − Così come bisognerà sciogliere il nodo della valutazione/selezione dei corsisti: alcune università hanno selezionato a monte, con esami ripetuti che − di fatto − sostituivano le prove preselettive. Altre lo hanno fatto a valle, in sede d’esame finale: è ovvio che ci siano stati dei casi problematici ed è altrettanto naturale e corretto che gli atenei abbiano deciso per la non abilitazione di alcuni corsisti, anche se si è trattato di condizionare pesantemente per il futuro il percorso lavorativo di docenti che, ricordiamolo, lo stato italiano ha utilizzato − ed anche spesso sfruttato − per anni (3,5, 10 ed anche di più) senza mai metterne in dubbio le competenze.
Una proposta − Ci sembra perciò veramente poco corretto dal punto di vista etico che, dopo anni di lavoro, lo stato pretenda di “fermare” questi insegnanti − lasciando, tra l’altro, la patata bollente ad altri! −. Non che tutti debbano abilitarsi. Il punto è che non si può pensare di porre uno sbarramento dopo anni di servizio. Per questo lanciamo un appello al Miur: dateci per piacere un percorso abilitante ordinario, che, come in ogni paese civile, si svolga ogni anno (massimo due), offrendo così la possibilità a chi vuole insegnare, di misurarsi da subito con le proprie competenze ed attitudini. Perché mai per ogni attività è previsto un esame di Stato che si svolge con cadenza regolare, mentre per diventare insegnanti occorre subire questi percorsi talvolta poco rispettosi della persona? Forse − anzi, probabilmente − perché la professione docente è considerata ancora un mestiere di seconda categoria. Invece anche dentro il gran “calderone” del Pas si sono nascosti docenti di talento, appassionati, con grande voglia di insegnare, e che spesso hanno arrancato − se non addirittura ceduto − nella fase conclusiva, proprio perché volevano fare bene… e non c’era neppure il tempo per fare bene le cose! È stato perciò un percorso particolarmente accidentato, faticoso sia per chi ha frequentato, sia per chi ha dovuto giudicare.
Uno Stato attento, però, non può non sapere che le sorti economiche di un Paese sono strettamente legate ai livelli di istruzione e che l’educazione è un investimento, non una spesa. Qualcuno al governo ha lanciato messaggi in questa direzione: seguiranno provvedimenti coerenti? Bisognerebbe non cadere più nelle solite soluzioni all’italiana, che si risolvono in queste “quasi-sanatorie” che, oltre a non selezionare, sono veramente poco rispettose dell’etica e della professionalità.