Piove in questa strana estate italiana, quando migliaia di docenti precari sono a spasso con un contratto scaduto e in attesa di una prossima convocazione che garantisca una supplenza annuale; il dubbio, che risuona nella mente come una smashing hit di un motivetto estivo, è quello che riguarda la prossima posizione cui si avrà diritto con l’aggiornamento delle graduatorie ad esaurimento e la sede della prossima scuola dove prendere, auspicabilmente, servizio.
Eppure, una collega non si è lasciata intimorire da questi pensieri tipici del docente precario, pluriabilitato, masterizzato, a volte addottorato, alle prese con le sibilline affermazioni di viale Transtevere; e mi ha suggerito qualche nota dal sapore estivo, grazie al racconto entusiasmante che mi ha fatto al ritorno da una “vacanza-studio”, il periodo trascorso all’estero da quegli adolescenti che lì vengono spediti dai genitori per frequentare un corso di lingua straniera in situ, venire a contatto con altri giovani e ampliare i propri orizzonti.
I genitori italiani infatti sembrano sempre più consapevoli che la conoscenza della lingua inglese è la chiave della comunicazione globale e l’apprendimento della lingua, laddove viene parlata dagli autoctoni, una grossa opportunità per i loro figli – oltre che, sia chiaro, un oneroso e impegnativo “investimento” (indubbiamente la vacanza-studio, vista da chi sia outsider, può apparire una moda, uno status symbol, oppure l’ostentazione degli ultimi scampoli di un benessere da ceto medio vessato dal fisco).
Dal punto di vista dei ragazzi, la vacanza-studio può essere la prima esperienza lontano da casa, per “fuggire” dalle grinfie della mamma-chioccia dall’italico temperamento, il primo passo cioè per non essere il futuribile “bamboccione” secondo l’infelice battuta del fu Padoa-Schioppa… e così, migliaia di studenti europei – come anche dalla Russia e dalla lontana Cina – prendono d’assalto il Regno Unito per imparare l’idioma di Shakespeare, magari con la speranza di divertirsi in piena libertà: non è questo forse il primo valore che accoglie chi viene dal vecchio continente nel nuovo mondo?
Cosa fanno, dunque, preadolescenti e adolescenti chiusi in un campus o college inglese, svuotato degli studenti indigeni che sono andati via per le vacanze estive (oltre agli interessi degli inglesi che, grazie alle vacanze-studio, lavorano con tutto l’indotto)?
La giornata tipo, come si può leggere in un qualsiasi sfavillante brochure delle numerose agenzie specializzate in questo settore, è caratterizzata dalla lezione frontale al mattino, dal pasto in mensa, dalle attività sportive nel pomeriggio, dalla serate create dagli animatori locali. Nel week end è di solito programmata un’escursione in giornata.
Le lezioni di inglese sono svolte da docenti locali che utilizzano metodi attivi e naturali, per facilitare la comunicazione con studenti internazionali: la dimensione ludica deve sollecitare l’attenzione dello studente in maniera coinvolgente.
La mensa poi è il fulcro delle geremiadi degli studenti italiani avvezzi ai prelibati manicaretti del desco materno e, se pasta scotta, bastoncini di pesce surgelato, verdure (cavolfiori, carote, piselli) lessate, salse varie non sono sufficienti a rifocillare le pance di affamati ragazzi in pieno sviluppo, costoro sono bravissimi a sopravvivere riempendo i frigoriferi delle cucine comuni dei dormitori del campus di prosciutti e salami e cibi vari con cui guarnire i panini.
La parte più bella, per anime che sanno muovendo i primi passi in questo mondo così vario e contradittorio − se uno vuole proprio vedere il lato poetico della commedia umana versione confezionata ad uso e consumo del teen-ager − è l’instaurazione di amicizie e legami umani: affiorano i primi amori e riaffiorano i nodi della propria personalità, lontano dalle inibizioni reggentesi sui convezionalismi dell’ambiente d’origine e del nucleo famigliare.
Dal racconto della mia collega inglese − a me che sono un classicista, docente di lingue morte, memore che un tempo il latino era la lingua franca di un impero, ben più forte dell’impero britannico − avrei voluto, dunque, indossare i calzari alati di Ermes, che in pochi battiti d’ali percorreva distanze vaste per raggiungere non dico l’antica Thule, ma il regno di Sua Maestà, e solo per ascoltare le chiacchiere di studenti e prof.
Insomma, migliaia di zainetti su cui campeggia il logo dell’agenzia della vacanza-studio inondano le strade delle città inglesi, pronti a sfornare i soldi per souvenir e capi di abbigliamento, che i genitori, non ancora pesantemente ammazzati dalla crisi economica, hanno potuto dare ai figli per i loro sfizi; eppure − riportano i bene informati − ci sono stati meno studenti per un buon 30 per cento rispetto a 4 anni fa o poco più.
Piove, dunque, anche in Italia, dover l’estate è autunnale; e a me viene in mente, di fronte a un clima oceanico, un ricordo sepolto nella memoria: la campagna inglese immortalata in un ripresa dall’alto del regista James Ivory mentre trillano i violini del secondo movimento dell’Estate vivaldiana. crome e semicrome denotano mimeticamente l’acquazzone dell’estate che volge al termine dopo i giorni della canicola. Ma quando questi non ci sono stati in Italia, allora vuol dire che sei nell’antica Caledonia…