Oltre 2 milioni di giovani fra i 15 e i 20 anni, i cosiddetti Neet (Not in Education, in Employment or in Training), galleggiano oggi in un limbo di realtà virtuale, fatta di giornate trascorse davanti allo smartphone, al pc o al tablet, navigando sui social network alla ricerca di compagnia o in attesa passiva di un lavoro che non c’è, mentre tantissime aziende artigiane soffrono per la mancanza di “eredi” e numerosi lavori manuali sono appannaggio esclusivo degli immigrati stranieri, dato che gli italiani si rifiutano di farli.



I nostri giovani hanno sempre più bisogno di mettere le mani in pasta – anche se tante volte non lo riconoscono coscientemente – per provare il gusto sconosciuto del sudore che ti riga la fronte, e del callo che ti indurisce il palmo della mano. Troppo tempo è ormai dedicato alla realtà virtuale, ai rapporti umani “elettronici”, alla costruzione di una identità anch’essa “elettronica”, che permetta di vivere senza rischiare troppo di sbucciarsi le ginocchia. Ma, alla lunga, la noia e la delusione – e con esse tanto spesso la rabbia che si esprime in violenza contro sé e/o contro gli altri – prendono il sopravvento. 



Il nostro organismo esistenziale, alla pari di quello biologico, per vivere e crescere ha necessità di cibi solidi, e non di ologrammi. Ed è per questo che alcune realtà del “privato sociale” forlivese (le cooperative sociali Onlus Paolo Babini e Salvagente, insieme all’associazione di promozione sociale Aiuto allo Studio e in collaborazione con la Caritas diocesana), attente ai bisogni dei giovani che incontrano nei propri centri di aggregazione, hanno ideato e realizzato un progetto – denominato Startup – che coniuga l’aspetto dell’acquisizione di competenze lavorative a quello più squisitamente educativo. 



Si tratta, in concreto, di percorsi proposti a giovani dai 14 ai 18 anni allo scopo di metterli alla prova in esperienze estive di educazione al lavoro. L’intento è, evidentemente, quello di far riscoprire ai ragazzi il gusto di mettersi in gioco per assaporare l’orgoglio del proprio operato, sperimentando la serietà, la concretezza e la bellezza del lavoro manuale.

Non pochi sono stati gli ostacoli da affrontare, dovuti soprattutto alle rigidità (spesso eccessive e irragionevoli) delle attuali normative sulla formazione e sul lavoro per i minori. Ma con un po’ di intelligenza e fantasia sono stati superati…

Il percorso è partito con un colloquio iniziale dei ragazzi e della famiglia con i responsabili del progetto, utile anche ad individuare il luogo più adatto per l’attività sulla base degli interessi e delle inclinazioni del ragazzo. Grazie alla disponibilità di alcune aziende, associazioni di volontariato e fattorie didattiche del territorio, è stato poi possibile offrirgli la possibilità di cimentarsi in attività agricole, di magazzinaggio e logistica, cucina, suddivisi in gruppi di massimo cinque ragazzi, sempre accompagnati e seguiti da un tutor che ha fatto da supervisore aziendale e collegamento educativo con la cabina di regia delle realtà proponenti. 

Le iscrizioni ai percorsi hanno previsto un costo (modesto) a carico delle famiglie, di cui una parte è stata restituita al ragazzo/a sotto forma di retribuzione (di fatto 5 euro al giorno, un pagamento simbolico percepito tuttavia con grande serietà dai giovani partecipanti). 

A dimostrazione ulteriore di un bisogno riconosciuto e condiviso sul territorio, l’iniziativa è stata patrocinata dalla Confartigianato di Forlì, che insieme alla Caritas diocesana ha permesso di mettere a disposizione posti per i giovani le cui famiglie versano in gravi difficoltà economiche.

A conclusione del percorso, la grande sorpresa e soddisfazione dei ragazzi (oltre 50) e delle loro famiglie per l’esperienza fatta ha trovato una conferma anche nelle risposte scritte sui questionari di verifica. Hanno detto per esempio alcuni ragazzi: “Ho conosciuto nuove persone e visto posti che neanche pensavo esistessero nella mia città”; “Ho fatto una fatica buona”; “Ho visto quello che sarà il mio lavoro domani”; “E’ stato significativo per me aiutare persone in difficoltà”; “Aiutare i bambini a fare i compiti mi ha fatto sentire davvero utile”; “Con i soldi guadagnati ricomprerò la bicicletta che mi hanno rubato”; “Ho capito che fare il contadino è un lavoro faticoso ma bello”…

I genitori, da parte loro, hanno rincarato la dose; ecco in sintesi alcune risposte: “E’ stata una esperienza utile, perché i ragazzi si sono calati nella parte del “lavoratore”, assumendosi le loro responsabilità, scoprendo che  in ogni lavoro c’è la parte di fatica e quella di soddisfazione, ma senza la prima non si può ottenere la seconda“. E ancora: “E’ stata un’esperienza molto utile. Non l’abbiamo vissuta come qualificante sotto il profilo professionale ma sicuramente sotto il profilo educativo: i ragazzi hanno dovuto fare i conti con regole diverse da quelle scolastiche o familiari, hanno visto ambienti diversi da quelli abitualmente frequentati, hanno conosciuto persone nuove. E anche se non hanno acquisito abilità professionali particolari, hanno però cominciato a comprendere le difficoltà nell’avvicinarsi al mondo del lavoro, il punto di vista delle aziende, ed hanno imparato che anche il lavoro più semplice e apparentemente meno qualificato in realtà necessita di cura ed attenzione ed anche di una certa preparazione. La fattoria didattica sicuramente ha riscosso molto successo, in quanto il lavoro di cura degli ortaggi, oltre alla fatica, ha portato un raccolto”.

Sono solo  alcuni spunti, che stanno però a dimostrare quanto sia necessario rimettersi tutti all’opera per far ripartire non solo il nostro tessuto produttivo, ma innanzitutto l'”io” dei nostri giovani, in un rapporto concreto e appassionante con la realtà.