Per le lingue straniere le Indicazioni Nazionali dei licei e le Linee Guida degli Istituti Tecnici e Professionali pongono lo stesso livello di competenza, B2, il primo step di un indipendent user, in un’apparente uniformità. In realtà le Linee Guida sono chiaramente distinte per conoscenze ed abilità, e frequentemente il testo e lessico disciplinare specifico sono oggetto di lavoro, mentre per le Indicazioni Nazionali la distinzione fra lingua e cultura pervade tutti i corsi, con indicazioni più generali riconducibili  alle quattro abilità tradizionali (leggere, scrivere, parlare, ascoltare) e alla consapevolezza culturale. Il profilo in uscita dei tecnici e professionali ha una maggiore specificità; in soldoni, le competenze sono davvero qualcosa da spendere e subito, mentre per i licei si attende il completamento nel percorso universitario, lo sbocco praticamente scontato della quasi totalità degli studenti, almeno come intrapresa iniziale degli studi. La maggior parte degli studenti in uscita, tuttavia, non continuerà lo studio della lingua straniera appresa nei licei all’università, e per molti il livello massimo richiesto sarà B1, addirittura inferiore a quello ipoteticamente richiesto come profilo in uscita del percorso liceale. Sempre che effettivamente gli stessi studenti raggiungano il livello richiesto, che prevede una gestione della lingua in cui la comunicazione non è più da intendersi solo come BICS, vale a dire come abilità di tipo functional, legate ai bisogni essenziali del vivere quotidiano e alle relazioni interpersonali, ma si prospettano alcune abilità di tipo CALPS, più accademiche, e che in teoria dovrebbero trovare la loro massima espressione e anche luogo adeguato di crescita nel CLIL, pur soft e modulare come dovrebbe essere? Ma quale è la realtà della classe media  di inglese in Italia ancora oggi? Abbiamo davvero fatto nostro il metodo comunicativo, davvero messo i nostri studenti nella condizione di utilizzare la lingua nelle ore di lezione di inglese (lingua straniera che tutti fanno da bravi 3phs learners, vale a dire studenti con tre ore settimanali di lingua), fornendo loro contenuti interessanti (che a diciotto anni in imminenza della scelta dell’università, non possono essere sempre e solo sports, hobbies, future plans, family and the like), intensa esposizione alla lingua, nelle sue varietà e forme, a tutti disponibile oggi con un po’ di googling ben ragionato, con attività di ricerca (detti research projects) finalizzati alla produzione (magari come oral presentation o report o briefing)? Anche con la collaborazione del conversatore o esperto madrelingua, che faccia da interfaccia culturale con un altro mondo, il suo? Forse anche con qualche progetto  che consenta a molti, se pur non a tutti ancora, un contatto on the field con il mondo anglofone, a costi  almeno bassi?



Questi esempi di scelte didattiche, a cui se ne potrebbero aggiungere molti altri, corrispondono davvero alla realtà dell’insegnamento della lingua e quindi al suo apprendimento? Personalmente credo che ben pochi studenti rimarrebbero completamente indifferenti a una esperienza che li veda attivamente coinvolti come esseri senzienti, per quanto ancora balbettanti in una lingua non propria, in un  processo di scoperta (non di costruzione si badi bene) del significato di esperienze complesse, dove anche una piccola curiosità, perché ad es. non si chiudono le porte e le macchine  a chiave, o la topografia di una cittadina, non sono trivia, ma elementi spicci di una esperienza  culturale complessiva che il docente sa presentare ai suoi studenti, in class  and out of class? La realtà dello studente in uscita dal primo ciclo completo della Riforma, in teoria indipendent user a livello B2, rischia di essere purtroppo diversa, e il rimedio non sta al momento in una ennesima revisione della normativa, per quanto le Indicazioni Nazionali non siano a mio parere di nessun aiuto nello spronare i docenti ad un effettivo miglioramento della didattica e della relazione pedagogica. Sarebbe stato opportuno, in sede di formulazione delle stesse, proporre un dettaglio delle abilità e dei contenuti, in particolare ponendo, come è stato fatto per altre discipline, un “canone”, vale a dire ciò che è veramente essenziale per la formazione di giovani che non avranno modo di continuare questo processo di familiarizzazione culturale se non con soggiorni all’estero coi programmi Erasmus dove, giustamente, ci si aspetta che una competenza di base, learning to learn, sia almeno inizialmente acquisita. E dove l’interesse dello studente universitario è ormai finalizzato ad un percorso specifico, cosa del tutto legittima. Mi sembra che al momento l’unica strada perseguibile, inserendosi però in una learning community stabile di proprio gusto, sia cominciare a fare  quanto si sarebbe dovuto fare da almeno cinque anni, o continuare a farlo con occhio critico, cogliendo il suggerimento delle indicazioni nazionali, ed integrandolo con quanto di buono esperienze lunghe di insegnamento hanno prodotto (l’età media del  docente è over 50), per arrivare ad una ipotesi articolata  In caso contrario, la descrizione  delle competenze in uscita sarà a fine anno scolastico 2014/5 una operazione burocratica, di cui la scuola non ha certamente bisogno.

Leggi anche

SCUOLA/ Cercare se stessi o manovrare il tram, studenti e prof al bivio della vitaSCUOLA/ Il vero orientamento avviene durante le ore di lezione (e niente può sostituirle)