Circa un anno fa di questi tempi abbiamo esaminato su queste stesse colonne le procedure di assunzione dei presidi in Inghilterra. In quel contesto, avevamo già rilevato come il sistema inglese riposi su un assunto molto chiaro, che nessuno mette in discussione: la committenza educativa appartiene all’utenza ed al territorio, che la esercitano attraverso il Board della singola scuola. Il ministero non gestisce il personale, che dipende direttamente dalle scuole.
Questo è ancor più vero per quanto riguarda l’organizzazione e lo svolgimento della didattica: ambiti nei quali le scuole dispongono di amplissima autonomia. A grandi linee, si può dire che il ministro eserciti la sua azione solo prima e dopo il processo di istruzione, ma si astenga totalmente dall’interferire durante il suo svolgimento.
A monte sta il National Curriculum, introdotto da Margaret Thatcher nel 1988 e consistente in un insieme di obiettivi di apprendimento relativi alle materie fondamentali. Questi obiettivi sono definiti in termini di competenze, cioè di saper fare, e non di contenuti e cioè di saperi da possedere.
Il percorso dell’obbligo scolastico, che va dai 5 ai 16 anni, è scandito in quattro livelli chiave, corrispondenti a fasce di età anagrafica (che si concludono, rispettivamente, a 7, 11, 14 e 16 anni). La descrizione dei livelli di competenza attesi riguarda la conclusione di ciascuno di questi periodi dello sviluppo individuale, ma non le tappe intermedie, per le quali ogni scuola organizza la propria valutazione interna come meglio crede. L’importante è che raggiunga gli obiettivi alle scadenze previste, non come faccia per arrivarci.
Alle materie ed agli obiettivi del National Curriculum le scuole devono destinare non meno del 70 per cento del totale del tempo di insegnamento, mentre il rimanente 30 per cento è a loro disposizione per scelte autonome. Di fatto, molte scuole utilizzano una parte di questa quota per approfondire gli obiettivi nazionali, ed il resto per svolgere attività o insegnamenti richiesti dall’utenza.
Questa flessibilità è resa possibile dal sistema di finanziamento, che è interamente a carico dello Stato, calcolato su base capitaria (un tanto per alunno), ma assolutamente privo di vincoli di destinazione. Con quelle risorse le scuole assumono il personale, acquistano il materiale didattico, quello necessario al funzionamento ed alle pulizie, pagano le utenze, le assicurazioni e provvedono perfino alla manutenzione ordinaria dei propri edifici (per i lavori più importanti provvedono gli Enti locali). Possono quindi decidere quanti e quali insegnanti assumere, sia per le materie nazionali che per le attività autonomamente scelte. E non è detto che si tratti necessariamente di insegnanti. Se parte del tempo è destinato ad attività sportive o artistiche o pratiche, saranno esperti dei vari settori.
Quanto agli insegnanti, sono scelti direttamente, fra gli abilitati che hanno fatto domanda presso la scuola: è una commissione interna, presieduta dal preside, che provvede a scegliere i candidati ritenuti più idonei. Il vaglio non prevede un esame delle loro conoscenze, ma un colloquio sui loro orientamenti pedagogici, sui loro metodi di insegnamento e sulle tecniche di gestione d’aula. Il contratto che viene stipulato li lega alla singola scuola, non al sistema. Se vogliono cambiare scuola, devono ricandidarsi altrove ed essere scelti.
Il finanziamento statale è accordato, nella stessa misura, anche alle scuole che noi chiameremmo paritarie: cioè quelle scuole gestite da privati o da fondazioni (per lo più religiose) che si impegnano a seguire il National Curriculum e ad accettare i controlli sui risultati previsti per le scuole statali.
Tali controlli sono duplici ed entrambi stringenti: i test nazionali sugli apprendimenti, che riguardano tutti gli alunni al termine dei 4 periodi-chiave, e le ispezioni dell’Ofsted, approfondite e severe, che hanno luogo per tutte le scuole, ad intervalli compresi fra i due e i quattro anni. Sia i risultati dei test che i rapporti ispettivi sono pubblici e disponibili per tutti, a cominciare dai genitori degli alunni.
Ogni volta che si parla di questa realtà – che riguarda peraltro, con varie sfumature, buona parte dei sistemi di istruzione del nord Europa e del resto del mondo – gli osservatori italiani la giudicano improponibile: come evitare che l’assunzione diretta alimenti il clientelismo e la corruzione? e come garantire l’equità e la tenuta del sistema nazionale se ogni scuola può fare come vuole?
I sudditi di Sua Maestà non sono superuomini né angeli in terra: vivono però in un sistema che li considera maggiorenni e responsabili. Fuor di metafora, non pretende di dettar loro ogni singola scelta né di spiegare come debbano fare il proprio lavoro: in compenso fa fino in fondo il suo. E quindi fissa in anticipo e in modo chiaro cosa si aspetta ed a quali scadenze; assegna risorse in misura uguale a tutti coloro che si impegnano a svolgere il servizio pubblico a quelle condizioni (compresi i privati); verifica con rigore che gli impegni siano stati mantenuti.
Detto in termini diversi: a garantire la qualità e la tenuta dei sistemi è una buona valutazione degli esiti reali e non l’asfissiante controllo procedurale in itinere: soprattutto quando – come da noi – si accompagna ad una distratta indifferenza al termine del percorso. Un sistema che diffida per principio delle qualità etiche e professionali dei propri dirigenti e dei propri docenti difficilmente riuscirà a migliorare la qualità della propria scuola.