Si avvia al suo quinto e ultimo anno la prima tornata di studenti che è partita con la riforma delle superiori, entrata in vigore quattro anni fa, quindi con primo effetto sulle classi quarte appena scrutinate.

Se ne comincia a parlare sulla stampa in relazione ad aspetti particolari come l’introduzione del Clil (materie curricolari che nel quinto anno vengono insegnate in lingua inglese). Un aspetto più generale, da non sottovalutare, è che si tratta di classi che dovrebbero aver svolto un percorso nuovo perché orientato al raggiungimento di un preciso “profilo in uscita” che prevede competenze articolatamente descritte, soprattutto per i licei. 



Nonostante l’apparenza e i giudizi negativi della prima ora, la riforma dei licei proponeva diversi punti interessanti: nell’ordine, la descrizione per punti delle competenze “metodologiche, argomentative, comunicative” proprie del percorso liceale in quanto tale, i profili dei singoli licei, le “Linee generali e competenze” con una riflessione – non ugualmente significativa nelle diverse materie, a dire il vero – sulla formatività di ciascuna materia di insegnamento e sul suo contributo specifico al raggiungimento delle competenze comuni, gli obiettivi di apprendimento in cui i contenuti assumevano il valore di “percorso concreto” verso una meta finale (spesso letti invece come l’unico punto saliente del documento: tassativamente quali autori, necessariamente quanti canti della Divina Commedia, ecc.). 



Il ministero ha fatto però troppo poco per far conoscere e comprendere la logica della riforma, diversamente da quanto avvenuto con il progetto di accompagnamento alle Indicazioni del 2012 per il primo ciclo. Si deve alla Fondazione per la scuola della Compagnia di San Paolo l’organizzazione a suo tempo di una serie di seminari che però non potevano avere un impatto sistematico sulla scuola. Gli equivoci (primo fra tutti che si trattasse di un semplice “riordino dei cicli”) e le interpretazioni fuorvianti non sono mancate.

Sull’idea stessa di “competenza”, per esempio, ha giovato a poco che la definizione ufficiale adottata dalla normativa (già nel documento Fioroni del 2007 sugli “assi” comuni al biennio delle superiori) precisasse che esse si attuano in situazioni “di studio o di lavoro”, evitando certi eccessi di funzionalismo legati alla storia del termine in ambito professionale. Le incertezze non sono mancate: secondo l’interpretazione data da molti è competente chi sa utilizzare le conoscenze e le capacità acquisite applicandole in contesti del tutto nuovi, con problemi imprevisti, in modo adeguato alla risoluzione concreta di problemi di vita reale. Vi fu un dibattito fra gli stessi pedagogisti: può la scuola, che è un ambiente di apprendimento decontestualizzato e basato su modelli teorici, “inseguire la vita”, o “inseguire gli studenti” nella vita reale per vederli all’opera? 



Ma poi: è “competente” un chirurgo, specializzato in un’operazione difficilissima che ha ripetuto centinaia di volte? È competente chi guidando la macchina mette in atto gli automatismi propri della guida (es. controllo dei pedali e delle marce)? Spesso risultano impossibili da definire i concetti evidenti all’esperienza (per esempio il tempo).

Tant’è che su come fare una “didattica delle competenze” si sono accartocciati i collegi docenti: un illustre liceo classico della provincia di Milano ha discusso per mesi su come fare per latino e greco una “prova autentica”, cioè “in contesto reale”, dove fosse possibile misurare il grado di autonomia dello studente di fronte a problemi nuovi e a situazioni impreviste, possibilmente in un contesto interdisciplinare. Pare troppo poco à la page che la tradizionale traduzione dal latino o dal greco sia di fatto affrontare un problema nuovo, in cui bisogna saper riconoscere la struttura testuale e semantica, fare ipotesi e verificarle sulla base di conoscenze ed esperienze precedenti, consultare in modo competente il vocabolario, e che tutto questo richieda capacità di “problem solving”, competenze metodologiche e comunicative (la transcodifica è ancora più complessa delle singole quattro abilità come il leggere o l’ascoltare). Semmai è didattica delle competenze far affiorare in modo cosciente questi aspetti della tradizionale pratica scolastica del tradurre. Come prevedono le “Linee generali e competenze” di latino, la “versione” non è solo il momento di verifica per il voto scritto, ma una palestra per l’attivazione di molteplici processi: il testo può essere contestualizzato attraverso note storiche o enciclopediche che aiutino i processi inferenziali, essere accompagnato da domande di comprensione o dalla richiesta di motivare scelte linguistiche, essere concepito come primo passo per commentare aspetti culturali o stilistici: un’operazione intelligente (come una buona traduzione è sempre). 

Come sempre, tutto sta nella coscienza con cui il professore usa dei suoi strumenti: è qui che scatta una didattica che porta progressivamente gli studenti ad essere competenti, e non solo a prendere la sufficienza. Così il profilo in uscita segna quella prospettiva, quel punto di fuga cui qualunque attività scolastica dovrebbe portare: la dimostrazione di geometria, la ricostruzione dei criteri di periodizzazione di un’epoca storica, l’argomentazione alla base di un sistema filosofico, l’uso dei dati e degli assiomi per risolvere un problema matematico, eccetera (mentre scrivo questo penso a quanto mi piacerebbero ora i miei cinque anni di liceo, ormai lontanissimi, e che tesoro si è accumulato nella mia testa senza che me ne avvedessi).

Un lavoro per competenze richiede però che i professori su questi obiettivi si misurino insieme, per dipartimento di materia e anche per consiglio di classe: se un singolo professore insiste su qualcosa i suoi studenti penseranno che “è fissato”, mentre se tutti i professori si danno man forte gli studenti si formeranno con un metodo. È un ostacolo che il legislatore probabilmente non ha previsto: la divisione fra gli insegnanti, spesso alimentata dai presidi, e comunque radicata nelle logiche impiegatizie del mestiere. 

Un altro ostacolo sta nel fatto che la logica del profilo in uscita non è quella del curricolo, perché più che partire dall’offerta (progetti, attività, metodologie) punta all’esito: si parte dal fondo e si vede come arrivare alla meta. Si sa quanto gli insegnanti sentano con insofferenza l’idea che si debba arrivare a un esito (possibilmente comune a tutta l’Italia); decenni di valutazione formativa hanno condizionato la percezione dei più, che non a caso se la prendono poi con la prova Invalsi (specialmente se fa parte dell’esame di Stato), perché viene al dunque e non tiene conto dei condizionamenti sociali, del contesto territoriale, del punto di partenza, degli sforzi, degli aspetti emotivi e di tutto quanto fa sì che ognuno sia diverso dall’altro.

L’incapacità del sistema scolastico italiano di raggiungere standard formativi comuni è un problema insoluto, che anzi si ripresenta ad ogni rapporto Invalsi (il sud indietro, alcune regioni pericolosamente marginali, differenze abissali anche fra scuole dello stesso territorio). Il vero peccato di origine dell’Istituto per la valutazione sta nel mettere a nudo problemi che hanno origine altrove, e che nessuno vuole né “realizzare” (to realize è verbo intraducibile: significa che è così e basta) né tanto meno affrontare e risolvere. 

In questo modo la forbice, ancora contenuta a livello di scuola primaria, si allarga man mano, fino a generare diplomati che non hanno raggiunto un qualche profilo in uscita chiaro, ed escono magari con 100 e lode ma affondano in università rigorose (e anche laureati che non sanno scrivere una pagina in italiano corretto: ne sa qualche cosa chi ha a che fare con i Pas, i percorsi abilitanti speciali, dove si cimentano fianco a fianco candidati preparatissimi e candidati assolutamente impresentabili anche a una prova di maturità). Ecco che il tema del profilo in uscita cessa di essere un argomento di dibattito per pedagogisti e disciplinaristi, e si mostra per quel che è: un problema di politica scolastica.

Il nodo che verrà presto al pettine è l’esame di Stato: si riaccenderanno le dispute su come misurare le competenze? Non si terrà conto affatto del profilo in uscita? Si farà una prova standardizzata con carattere di misurazione? E come farla, viste le differenze enormi fra gli indirizzi? E per parlare di aspetti più ristretti, che prova scritta faranno i ragazzi? Al di là delle lodevoli intenzioni di chi propose il commento al testo (tipologia A), il saggio breve e l’articolo di  giornale (tipologia B), il risultato non è all’altezza delle aspettative: il commento al testo è scelto da una minoranza quasi irrilevante di alunni e non incide sull’insieme della scuola italiana in modo significativo (v. dati del ministero), la retorica della prova scritta “documentata” (semi-autentica, anche questa doveva essere “non scolastica”) si riduce per la maggior parte degli studenti nell’incapacità, davanti ai molti documenti proposti, di problematizzare, di proporre un’idea sintetica qualsivoglia e di costruire un discorso organico che non sia un copia e incolla di citazioni dai documenti. Sarebbe giusto però ripensare non solo la prova, ma anche quali “competenze” si vogliono verificare.

Che la capacità di argomentare sia diventata un’emergenza nazionale si vede dai progetti dell’Accademia dei Lincei, d’intesa con il ministero, ormai diffusi su tutto il territorio, che riguardano l’italiano scritto “argomentativo”, la matematica e le scienze: guarda caso il problema è la competenza, non solo la materia in cui si realizza (in matematica: che lo studente “impari a progettare e condurre osservazioni sperimentali sugli oggetti, ne sappia interpretare i risultati, formuli semplici previsioni e congetture e si avvii all’argomentazione logica”; in scienze che gli insegnanti siano “orientati ad un trasferimento del metodo e del pensiero scientifico in classe” facendo lavorare “soprattutto il cervello dei ragazzi”; per italiano introdurre “gli studenti a testi latamente argomentativi e descrittivo-espositivi” in modo da “mettere in condizione un adolescente, qualunque sia la scuola frequentata, di comprendere pienamente un testo di questa tipologia” come requisito essenziale per la comprensione del ragionamento scientifico).

I progetti raggiungono come sempre i volenterosi. Fra gli insegnanti spesso scarseggia l’energia fisica per informarsi, aggiornarsi, mettersi in pista: questi ultimi anni hanno comportato una fatica aggiuntiva non solo a causa delle diverse innovazioni, ma anche per ragioni più spicciole. Io stessa, rientrata in classe dopo un periodo di assenza, ho trovato un orario di cattedra molto più oneroso del passato e non in termini di ore di cattedra: per italiano spezzoni di materie diverse in quattro classi, per un totale di 120 studenti, impossibilità di avere una cattedra-orario sostenibile a causa della somma obbligata di 18 ore (al biennio o tre classi con italiano, un latino – cioè quattro scritti al mese − e una geostoria, oppure tre classi con latino e geostoria – con diversità di carico lavorativo fra colleghi), difficoltà a garantire la continuità didattica da un anno all’altro. In certe scuole gli insegnanti si sono accordati fra loro e fanno un anno 17 e un anno 19 ore, a parità di stipendio, ma questo solo perché il preside acconsente e nessuno pone il problema sindacale. Così adesso capisco almeno un po’ chi della riforma ha sentito parlare da lontano, non si cura più di tanto del Quadro di riferimento Invalsi, e avendo l’idea che le competenze siano un’utopia continua a insegnare come ha sempre fatto (per fortuna molto spesso bene). 

Mi auguro anche per gli affaticati e oppressi una via chiara, e che il prossimo anno, in occasione del quinto anno della riforma dei licei, possa essere il momento giusto per riprendere il tema del profilo in uscita e delle competenze metodologiche, argomentative e comunicative, che contribuirebbero ad un’Italia più in posizione di “attacco” rispetto alle circostanze difficili in cui si trova.