Si avvicina il 29 agosto, giorno in cui il governo si appresta a varare in Consiglio dei ministri un nutrito pacchetto di provvedimenti. I più attesi sono quelli che riguardano la scuola, e il ministro Stefania Giannini, ieri ospite del Meeting di Rimini, ha fornito elementi per fare alcune supposizioni sulle prossime decisioni del governo. Il ministro ha ribadito la volontà di rimediare ai mali cronici delle supplenze (ragioniamo in termini di organico funzionale, non più di diritto) e del precariato. Alla platea del Meeting il ministro ha promesso attenzione per i temi dell’autonomia, della valutazione e del merito; principi noti e ripetuti, che attendono solo le decisioni politiche e gli strumenti adeguati per applicarli. Ilsussidiario.net ha parlato col ministro Giannini subito dopo l’incontro, dedicato al tema “Educazione: dalla periferia al centro”.



Ministro, centro e periferia oggi si mischiano. Essere in periferia è un male o una virtù?
È una potenzialità. Essere in periferia significa vivere una condizione di assenza. Da cui la necessità di dare potenziale per colmare la mancanza. Credo che gli strumenti della scuola siano la chiave fondamentale per fare sì che questa assenza e questo desiderio generino un valore positivo. 



I giovani oggi appaiono fragili, eppure lei li ha definiti “la generazione più forte della storia d’Italia”. Perché?
La potenzialità che questa generazione si trova ad avere, come capitale di opportunità esistenti dai primi anni di vita fino alla maturità, non si era concretamente mai verificata in questa misura. I tassi di scolarizzazione, pur nel dramma della dispersione scolastica, sono i più elevati; abbiamo una scuola pubblica funzionante, aperta a tutti, lo studio all’estero è una mobilità che riguarda una minoranza assoluta, è vero, ma è una barriera destinata a cadere. C’è chi non ha avuto la fortuna di nasce in una famiglia con tanti libri, ma con gli strumenti digitali che tutti i ragazzi oggi hanno a disposizione il potenziale è enorme. E supera nettamente le condizioni di disagio.



Lei ha invocato un “nuovo patto” per la scuola. Quali i punti principali?
Un chiaro rapporto di alleanza tra chi insegna e chi dirige le scuole, cosa che francamente a mia memoria non ricordo sia stato fatto dai governi che ci hanno preceduto. Ogni sforzo è sempre stato dedicato a strappare concessioni su condizioni retributive, reclutamento, graduatorie tra le parti e il governo in carica. Io credo che invece il patto debba ricominciare da un’alleanza con gli insegnanti. Questo vuol dire anche cambiare le regole del gioco.

Ci anticipa qualcosa di quello che avete in serbo per il Consiglio dei ministro del 29 agosto?
C’è una sorpresa che vogliamo mantenere. I principi li ho detti, li conosce, li ribadisco. Per gli strumenti si tratta di attendere ancora per poco.

Lei è alla guida di un gigantesco moloch burocratico che finora ha avuto la meglio su chiunque abbia tentato di governarlo. Si può abbattere il centralismo, cominciando magari dalla mole abnorme di legislazione?

Il governo non è inconsapevole dell’altezza del muro. Un muro di complessità legislativa, di burocrazia anche ministeriale, al centro e in periferia, di pregiudizio nei confronti di certi tabù, come quello della valutazione, del merito, degli incrementi stipendiali non dati solo per anzianità. Sono tanti i gradini che vanno superati, però se un governo decide di scommettere su questa responsabilità politica, e noi intendiamo farlo, c’è la possibilità di ottenere il risultato finale.

È ipotizzabile un nuovo stato giuridico per i docenti?
Se si vuol cambiare davvero la scuola, si deve ridiscutere anche il rapporto degli insegnanti con la scuola stessa. Anche quello è uno strumento e come tale va tenuto insieme agli altri capitoli del pacchetto che intendiamo presentare.

E per quanto riguarda l’autonomia?
Come lei ben sa, l’autonomia è già prevista da una legge dello stato, malamente applicata per le ragioni storiche che conosciamo. Ora si tratta di creare un modello organizzativo ed educativo che consenta di attuarla.

Fino ad oggi i sindacati hanno fatto il bello e il cattivo tempo dentro la scuola. Tra Renzi e la Cgil però non c’è feeling. Se si arrivasse ad una vera riforma, il “muro” della Cgil potrebbe essere pericoloso, non crede?
Più che di pericolo, parlerei di una dialettica necessaria con tutti i mondi che sono da coinvolgere; partendo dalle famiglie, passando per il mondo imprendioriale − che deve cominciare non solo a dire che i ragazzi escono dalla scuola senza competenze, ma a dare il proprio contributo per capire quale collaborazione migliore si può instaurare − fino al sindacato. Direi che il protagonismo di certo sindacato è derivato anche da una trascuratezza di responsabilità politica da parte dei governi che ci hanno preceduto. Ma c’è lo spazio per ricondure ogni sforzo buono alla politica di governo.

(Federico Ferraù)

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