La dislessia di Emma che fa la seconda media, i reni di suo padre che non funzionano più, la dialisi che c’è e il trapianto che verrà, un convento che cambia la storia della sua mamma, una brava prof di sostegno che monta una tenda davanti alla scuola e poi Mathias che è un tipo tosto, Vittoria che invece è una brutta tipa, una canzone di De André, una di De Crescenzo, una poesia di Pascoli e un racconto di Kafka. Può esserci tutto questo in un libro? Può esserci tutto questo in un libro che è pure bello, ben scritto e vale la pena di essere letto e proposto ai più giovani? Sì se questo libro esce dalla penna delicata e acuta di Silvia Vecchini, che da anni scrive libri per bambini, romanzi per ragazzi e poesie. Parliamo di Le parole giuste, uscito in libreria da Giunti per lettori a partire dai dieci anni. Non è facile usare le parole giuste per affrontare il tema della dislessia, senza risultare superficiali o faciloni e senza neanche drammatizzare eccessivamente.



Non è nemmeno facile usare le parole giuste per parlare di dialisi e trapianto, della possibilità di donare un rene da parte di un coniuge, un gesto d’amore nient’affatto scontato per il quale è umano avere paura e titubanze. Le parole giuste le trova la Vecchini nel suo nuovo breve romanzo, centoquaranta pagine che scivolano via con leggerezza, senza essere mai banali. I ragazzi che prendono vita sotto i nostri occhi risultano credibili e veri, così alle prese con le loro questioni individuali. Al centro della storia troviamo infatti i rapporti: fra coetanei, fra ragazzi e adulti, fra adulti. Da tempo ritengo che meritano segnalazione soprattutto quei libri che oltre a essere scritti bene – requisito essenziale per un buon libro – sono capaci di descrivere le dinamiche reali dei rapporti dei più giovani, senza essere edulcorati e stupidamente ottimisti, ma al contempo senza essere cinici o disperati.



Emma la protagonista, pensa: pensa come cavarsela con la sua dislessia e le prese in giro delle compagne (forse un po’ troppo “cattive”), pensa soprattutto come se la caverà suo padre con i reni che non funzionano più e un rene nuovo in arrivo dalla moglie. Di quest’ultima vicenda colpisce soprattutto come il fatto di essere tenuta all’oscuro dai suoi genitori su ciò che sta per accadere inneschi in Emma l’angoscia e l’emergere di una serie di teorie, più o meno corrette. La sua storia ci insegna come spesso il non-detto crei pasticci, come lasci spazio a interpretazioni spesso erronee o incomplete. I genitori tengono all’oscuro la figlia dell’imminente trapianto da donatore vivente, con l’intento di non turbarla, senza considerare il fatto che è difficile conservare un segreto, per giunta così grande, in famiglia.



Bastano un foglietto ritrovato in un cassetto, un numero memorizzato sul cellulare, un mozzicone di conversazione rubato al telefono perché si insinui presto un dubbio e nascano ipotesi. Il non-detto poi ha una caratteristica peculiare, genera altro non-detto, produce un clima in cui è difficile chiedere spiegazioni per saperne, giustamente, di più. E si accumulano bugie e fraintendimenti. A volte con i ragazzi ci prende la tentazione di nascondere la realtà per il timore che non sappiano affrontarla, che manchino di strumenti adeguati per comprenderla e accettarla, nel caso non sia proprio possibile trasformarla. E invece loro ce la fanno, se facciamo loro compagnia, se non li lasciamo soli, se non abbiamo paura di comprometterci con loro per comprendere ciò che sta succedendo e giudicarlo insieme. Ovviamente, per farlo, dobbiamo trovare le parole giuste. E, perché no, anche i libri giusti.