Parlare del ritorno sui banchi di scuola all’inizio d’agosto, mentre, anche se l’estate tarda ad arrivare, si entra nel vivo delle vacanze, può sembrare un po’ troppo in anticipo sui tempi; però è anche vero che proprio questo è il momento più adatto per riflettere in maniera pacata e profonda sulla nostra mission di docenti. Del resto, se siamo davvero interessati al lavoro che facciamo, non riusciamo proprio a scrollarci di dosso i volti dei ragazzi che ci vengono affidati.



E proprio di questi ragazzi vorrei parlare e delle loro attese. Con un’attenzione particolare a quelli che il prossimo anno scolastico inizieranno, superata la secondaria di primo grado, un nuovo corso di studi. Come mio figlio, tanto per fare un esempio, che ha voluto iscriversi al liceo musicale. Per lui, come per i suoi ex compagni di classe, come per moltissimi altri, il futuro è piuttosto confuso. Speranze, paure e anche rimpianti (se la precedente esperienza scolastica è stata vissuta bene) si fondono insieme e rendono poco netti i contorni del prossimo anno scolastico. Sì, hanno partecipato regolarmente all’open day della scuola che gli interessava; sì, hanno sentito il parere di parenti e amici o semplici conoscenti, che di quella scuola, di quel corso, di quel nuovo ambiente gli hanno detto qualcosa; sì, magari hanno già passato (se previsto) un esamino di selezione, hanno frequentato qualche corso pomeridiano, ma tutto questo è troppo poco rispetto alle domande che un ragazzo si porta dentro: riuscirò? La scuola che ho scelto è quella giusta? E come saranno i professori? E come sarà la mia nuova classe, i miei nuovi compagni? Il momento è importante, inizia una nuova significativa tappa nella vita di un giovane.



Proviamo a pensare a loro sulla base di quello che vediamo ogni anno (e anche tentando di ricordare come eravamo noi nella loro situazione). Non ci nascondiamo dietro un dito: molti sono in fuga da qualcosa. Chi si iscrive al Classico in genere non ha un buon rapporto con la matematica; chi va allo Scientifico si trova a suo agio tra i numeri, ma a volte suda le sette camicie quando affronta lo scritto di italiano; chi sceglie un professionale sa in partenza che non dovrà stare molto sui libri (cosa che non ama particolarmente).

Ma c’è dell’altro e questo “altro” è a mio parere molto diffuso. C’è un’attesa positiva, c’è davvero in molti il desiderio che l’indirizzo che hanno scelto sia come se l’immaginano. 



Mi spiego: chi s’iscrive ad un Classico vuole scrivere, leggere, entrare in rapporto con la letteratura e la storia, è incuriosito dal greco e dal latino, e anche dalla filosofia. Uno studente che si rivolge allo Scientifico ha imparato ad apprezzare proprio le materie che caratterizzano quell’indirizzo di studi e insieme a quelle vuole vivere questa nuova avventura; uno studente iscritto ad un Linguistico si aspetta davvero di riuscire a conoscere, comprendere e parlare le tre lingue che gli sono state promesse; quello che inizia il Liceo Artistico si vede impegnato nel disegno, nell’illustrazione, nella pittura; lo studente di un istituto alberghiero si aspetta di trovare dei professionisti che mantengano la promessa di portarlo ad un livello adeguato al mercato del lavoro in quel settore. E potremmo continuare.

Non sono solo ragazzi in fuga, o ragazzi confusi: in molti io noto invece una chiarezza d’idee che mi conforta e al tempo stesso mi carica di responsabilità. La loro attesa dovrebbe portarci a chiederci: e noi? Come rispondiamo? Come veniamo incontro a quel desiderio di sapere, di crescere, di migliorare che uno studente ha dentro? Ripenso alla mia scelta del Classico. Ripenso a quei cinque anni durante in quali ho avuto ben sette diversi docenti di italiano (i supplenti dei supplenti) e una traumatica sostituzione della professoressa di greco e latino al biennio ginnasiale. Ma il problema non è solo la sempre possibile mancanza di continuità didattica. Il vero problema è incontrare adulti che non sanno o addirittura non sono interessati a rispondere a quelle attese, che potrebbero dare e non danno, che vivono di routine e così dimostrano di non apprezzare il loro lavoro.

Il problema è quando uno studente riflette e conclude: qui sto facendo molto poco, sto imparando molto poco. Oppure: la mia famiglia ha speso un sacco di soldi per libri che non abbiamo mai aperto. Oppure, ancora: sono venuto in questa scuola perché mi piacevano delle materie e mi trovo a fare tutt’altro. La faccia migliore che come istituti mostriamo nei nostri open day e le promesse che facciamo poi dobbiamo mantenerle.

Infine c’è un altro aspetto, un altro tipo di attesa, ed è quella relativa all’ambiente che si troverà, ai compagni che si troveranno. E un ragazzo che comincia un nuovo corso di studi, in genere, s’immagina tutto il bene possibile. S’immagina nuovi amici, s’immagina accoglienza, s’immagina di integrarsi ed inserirsi presto nel nuovo gruppo, nella nuova scuola. E’ una domanda di amicizia che troppo spesso viene frustrata da gruppi classe nei quali regnano pregiudizi, chiusure e perfino bullismo tra gli studenti. E noi, noi docenti, noi scuola, come rispondiamo a questa attesa? Quale attenzione le dedichiamo?

Allora, penso che non sia secondario guardare ai nostri ragazzi come a un concentrato di desideri, sogni, attese che ci interpellano, che ci provocano. Iniziamo il prossimo anno scolastico cercando di rapportarci a loro con questo sguardo, stando davanti alla domanda che ci pongono, sentendo su di noi la vertigine che proviene dalla loro umanità. Potrebbe essere davvero un bell’inizio.