Il Rapporto Ocse 2014 “Education at a Glance” dà all’Italia due messaggi molto chiari: collegare il sistema educativo al lavoro fa crescere la fiducia dei giovani nello studio e contiene gli abbandoni; ottimizzare gli investimenti (riducendo spese inutili) non riduce la qualità della scuola e dell’università. 



Al di là di alcuni toni catastrofici che sembrano già aver archiviato il documento, l’Italia riceve diversi spunti per trovare soluzioni adeguate ai tanti problemi che i nostri giovani stanno incontrando. L’Ocse ci dice che l’entità dell’abbandono scolastico in Italia è drammatica. Una questione a lungo sottovalutata che finalmente è stata ricondotta all’origine: i giovani sono più propensi a lasciare gli studi se non li ritengono adeguati a creare sbocchi occupazionali. Più brutalmente: se la scuola e l’università continueranno a creare disoccupati il tasso di abbandono degli studi non accennerà a diminuire. I giovani che non hanno più fiducia nell’istruzione preferiscono by-passarla e sperano che entrando prima nel mercato del lavoro, anche con basse competenze, sia possibile costruire un percorso professionale in un periodo avaro di opportunità. Nella maggior parte dei casi questa speranza è vana: si spiega così l’alto numero di Neet (oltre 1,5 milioni) del nostro Paese.



Perché in altri paesi avanzati l’abbandono è più contenuto? Sicuramente perché puntano su percorsi più “work-friendly” come l’istruzione tecnica e professionale (la Vet, Vocational Education and Training) che l’Ocse identifica come il percorso più scelto nei suoi 34 paesi membri e quello in cui, dal 2005 al 2012, gli iscritti sono aumentati del 3%. L’Organizzazione riconosce che in paesi a scuole prevalentemente “generaliste”, come Grecia e Irlanda, il tasso di disoccupazione giovanile è molto alto. L’Italia è vicina a queste due realtà. E non c’entra solo la crisi. Positivi invece i dati dei paesi che puntano sulla Vet o, meglio, adottano il “sistema duale”: dalla ben nota Germania fino alla sorprendente Slovenia. Anche a livello post-secondario e terziario i paesi che offrono maggiori possibilità di occupazione sono quelli più orientati ai percorsi professionalizzanti di alto livello. In Italia invece l’abbandono dilaga perché abbiamo una scuola e un’università in cui spesso vince il motto “Prima si studia, poi si lavora!”. Più alternanza scuola-lavoro ma anche più percorsi professionalizzanti di qualità (come Its e lauree triennali) sono una via obbligata che non possiamo non imboccare. Va ricordato che sempre l’Ocse, poco meno di un anno fa, ha collocato i giovani italiani tra i migliori al mondo nelle competenze pratiche, competenze però formate soprattutto in contesti extra-scolastici. Abbiamo la “materia prima”; serve ora un sistema educativo che la faccia crescere.



Altro messaggio che l’Ocse ci dà, malgrado alcune “semplificazioni” diffuse in queste ore: la riduzione della spesa in istruzione, se ponderata, non implica una diminuzione della qualità dell’apprendimento degli studenti. Anzi: i giovani italiani migliorano le loro competenze di base anche se si riduce il numero degli insegnanti e ci sono meno risorse a disposizione. Merito questo proprio degli insegnanti che sono riusciti a non scoraggiarsi con i famosi “tagli”. Ad oggi la spesa pubblica per studente dell’Italia è a ridosso della media Ocse; dietro a noi paesi come la Corea del Sud e Israele. Il rapporto studenti-docenti è persino troppo “basso”: 12 studenti per 1 insegnante alle elementari e secondarie inferiori, rispetto alla media Ocse di 15 a 1 nella primaria e 14 a 1 nella secondaria inferiore. Nelle nostre aule ci sono in media 20 studenti, così come nelle rinomate Austria e Finlandia. Alle secondarie in Corea del Sud e Giappone, paesi avanzatissimi, ci sono più di 30 ragazzi in una classe. E non per questo la si considera una diminutio.

Nonostante tutto il sistema educativo italiano mantiene dunque reattività e, con le giuste riforme, può diventare competitivo e tornare a rispondere alle aspettative di giovani, famiglie, imprese. Più collegamento con il lavoro e meno “pessimismo cosmico” possono aiutare la nostra scuola e le nostre università a ritrovare la fiducia degli studenti italiani che, come l’Ocse conferma, hanno mostrato di meritarsela.

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