Capita raramente che docenti di scuola si confrontino con esperti della comunicazione nel mondo aziendale. Forse per mancanza di occasioni, oppure per presunzione, per un comprensibile senso di superiorità dettato da anni passati sul campo con generazioni di giovani, o forse per mancanza di risorse e di possibilità, o ancora per l’idea che la comunicazione in azienda sia tutt’altra cosa, finalizzata a persuadere il cliente e non a formare ed educare un giovane.
Eppure, se condotto con curiosità e attenzione, questo tipo di confronto permetterebbe di riscoprire gli elementi essenziali dell’arte comunicativa e di riportare alla luce la grande ricchezza di esperienza che la maggior parte dei docenti fa nel proprio lavoro quotidiano, senza esserne, spesso, consapevole. Se i docenti falliscono nella comunicazione, infatti, fallisce lo scopo della scuola, come dimostrano le alte percentuali di disaffezione scolastica nelle giovani generazioni.
Che differenza c’è tra comunicazione e informazione? Cosa vuol dire comunicare bene? Quali sono i metodi, le accortezze, gli strumenti consueti e nascosti, saputi o solo agiti, vocali o corporei di una comunicazione efficace? Quali sono gli obiettivi della comunicazione? Abbiamo davvero chiaro il contenuto forte che vogliamo rimanga dalla nostra attività di comunicazione di un’ora di lezione? Quanto peso danno i docenti alla propria voce, al proprio corpo, finanche al proprio abbigliamento, nel modo di fare lezione?
Per approfondire queste tematiche una psicologa delle organizzazioni, Cristina Margutti, esperta e docente di comunicazione e di public speaking per una delle quattro più grandi società di consulenza al mondo, la Deloitte Consulting, è stata invitata presso i Licei Malpighi di Bologna per aggiornare i docenti e condividere una riflessione rigorosa sugli aspetti salienti dell’arte della comunicazione e del public speaking, nonché sulle modalità più efficaci per la costruzione di presentazioni power point, strumento essenziale nella comunicazione aziendale, ma poco praticato, nei fatti, nelle aule di scuola da parte dei docenti. Già da anni la dottoressa Margutti faceva questo intervento per gli studenti del Malpighi all’interno del Business Game che Deloitte aiuta a realizzare, gratuitamente, ogni anno.
Lo scetticismo di molti insegnanti navigati di fronte a una giovane esperta di comunicazione si è trasformato in curiosa partecipazione subito dopo i primi minuti, quando Cristina ha messo a tema la vera natura della comunicazione, svelandone la radice etimologica: comunicare significa mettere in comune qualcosa di prezioso, un dono (munus). Comunicare è un compito ed anche un dovere.
Comunicare è far partecipare l’altro di un dono che si possiede, di un contenuto essenziale, non è un semplice “dare informazioni”: è contemporaneamente un far sapere (offrire i contenuti, i dati, le nozioni), un far sentire (portare l’altro “a bordo” della propria nave, avvincendolo affettivamente) e un far fare (provocare una risposta, una mossa dell’allievo e quindi una domanda).
Comunicare è far partecipe l’altro di un contenuto che riteniamo importante, attraverso un codice preciso, all’interno di un orizzonte di senso condiviso, mai elitario, tutto da costruire tra l’emittente e il ricevente della comunicazione. Possibile che sia così chiaro per consulenti aziendali e non per insegnanti esperti e motivati a far bene?
Comunicare è offrire un contenuto di valore a un altro, ed è sempre questo “altro”, il ricevente della comunicazione, il vero “protagonista” della comunicazione. Quanto cambierebbe ogni lezione se ciascun docente avesse chiaro che il protagonista non è lui che parla, ma i suoi allievi che lo ascoltano! Sono loro, gli allievi, che non capiscono mai, o sono i docenti a non saper comunicare in maniera efficace? Banale forse, eppure è una rivoluzione per quel mondo spesso egocentrico e autoreferenziale degli insegnanti, degli educatori e, non di raro, dei sacerdoti, di rapportarsi a chi hanno di fronte.
L’altro, il “cliente” nella terminologia aziendale, nel caso dell’insegnante è il più difficile dei “clienti”. Il giovane discente infatti ha un fiuto infallibile per ciò che è autentico e interessante. Non ha senso uscire soddisfatti da un’ora di lezione perché si è detto tutto quel che ci si era prefissati, se non siamo riusciti ad intercettare l’altro, chi è davanti a noi.
Se lo scopo è che l’altro sia partecipe del nostro messaggio, è l’altro che dobbiamo guardare, è “l’altro” che va servito e sollecitato a venir fuori con tutti gli strumenti a nostra disposizione. Abbiamo tanti strumenti per farlo e dovremmo esserne coscienti per ottimizzare, anche in senso economico, le nostre risorse ed energie: il codice orale, gestuale, corporeo, scritto, virtuale, mediatico, digitale.
Il vero comunicatore sa prendersi momenti e pause di silenzio, sa aspettare pazientemente la risposta o la domanda dell’altro invece che parlarsi addosso da solo, sa cercare i feedback che gli diano la certezza che la comunicazione sta avvenendo.
Chi comunica sa che deve rimodulare il proprio linguaggio a partire dalle categorie e dagli schemi mentali di chi riceve la comunicazione per poi portarlo su di un piano più elevato, permettendo di fare un percorso. Quante volte invece, tanto i manager che i docenti, per paura, per darsi un tono o ancora peggio per una decisione presa di tenersi a distanza dal proprio “pubblico”, decidono di non prendersi cura del ricevente, usando un linguaggio specialistico e elitario, inaccessibile per l’altro.
Usare dei tecnicismi è una maschera che ci mantiene in un’area di comfort che ci dà sicurezza; invece saper costruire un codice chiaro e condiviso con l’altro crea fiducia e permette una relazione comunicativa di lungo periodo. Senza decidere di entrare nella relazione comunicativa, aperti e disponibili ad ascoltare l’altro, non c’è possibilità alcuna che passi qualcosa. Questa disponibilità e apertura dev’esserci naturalmente anche in chi ascolta, ma deve esserci innanzitutto in chi comunica.
La letteratura su questo tema evidenzia che solo il 7% della nostra efficacia comunicativa è dovuto alle parole che diciamo. Il paraverbale, ad esempio la modulazione della voce, si prende il 38%. Il 55% (qualcuno dice addirittura il 98%) della comunicazione è affidata, invece, al non verbale: alla mimica facciale e alla postura del corpo, al volume e al ritmo della voce, alla gestualità (mai parlare con una penna in mano!) e soprattutto alla modulazione dello sguardo verso l’altro. Quindi il corpo – alleato meraviglioso per i comunicatori – vince sulla parola quanto a efficacia comunicativa.
L’altro dato impressionante che la ricerca ci offre dice che se la nostra volontà comunicativa è al 100%, ciò che riusciamo davvero a comunicare rappresenta solo il 70%, a causa del “rumore” che noi o l’ambiente in cui la comunicazione si svolge, producono. Di quel che diciamo il ricevente sente il 70%, accoglie un 50%, ne capisce solo un 20% e ne ricorda in definitiva solo un 10%.
Si potrebbero snobbare questi dati, ma solo per presunzione. È invece interessante conoscerli per vivere la propria professione di insegnanti senza ingenuità o illusioni.
Questo non toglie che l’autenticità sia la caratteristica vincente di ogni comunicatore, che è tanto più naturalmente spontaneo quanto più conosce il contenuto e si prepara al millesimo il momento della comunicazione tenendo conto di “chi” ha di fronte.
La grande tradizione didattica umanistica europea, laica e cristiana, non ha certamente nessun complesso d’inferiorità rispetto alle moderne scuole di psicologia della comunicazione di matrice anglosassone. L’arte della retorica e dell’argomentazione ha una radice classica e basterebbe recuperarla per aiutare docenti, educatori e comunicatori d’ogni sorta a rimettere in chiaro le proprie idee, a risparmiare energie (e voce!) spese inutilmente e soprattutto per rendere più efficace la comunicazione per conseguire gli obbiettivi preposti.
La scuola italiana abbisogna, ancor più che di risorse e infrastrutture, della ripresa di coscienza di che cosa significa insegnare e della scoperta delle strade più efficaci per entrare in rapporto con gli alunni. Se non sarà così verrà il giorno in cui le nostre aule belle e ben strumentate saranno piene di alunni annoiati e disillusi circa il ruolo della scuola stessa per la loro crescita e formazione.