“Ma è mai possibile che gli italiani spendano per l’università meno che per il canone Rai?» (Corriere della Sera, 8 settembre 2014). Questo grido di dolore del presidente della Conferenza dei Rettori Universitari Italiani, Stefano Paleari, fotografa bene lo stato della nostra università e lo stato d’animo di molte delle persone che in università lavorano. 



Il dato è in effetti sconfortante: l’università italiana, a differenza di quello che accade in altri paesi europei e non solo, negli ultimi 5 anni ha subito tagli e riduzione di investimenti per un miliardo di euro e abbiamo anche perso un numero importante di ricercatori, passando da oltre 60mila a 53mila. Il ministro Giannini ha annunciato che il sistema di ripartizione dei fondi – finalmente – cambierà: saranno dati più soldi ai più meritevoli e speriamo tutti che il nodo dei finanziamenti all’università e alla ricerca possa districarsi in modo favorevole alla crescita in modo stabile del nostro sistema accademico. Come spesso capita nel nostro paese, però, l’organismo preposto alla valutazione – l’Anvur – è stato preso di mira per il lavoro svolto rispetto alla valutazione della ricerca, e si aspettano critiche feroci per qualsiasi altra decisione relativa alla valutazione della qualità delle università.



Il tema dei finanziamenti, che non possono essere più dati sulla base dello storico, e il conseguente problema della valutazione della qualità della singola università, si innestano sullo sfondo di una situazione economica difficile, che morde tutti i settori del paese. Si dovrà dunque essere pronti ad approfondire in modo sistematico e attento chi e come stabilirà se una università meriti il premio, perché su quello si concentreranno le polemiche. Per una volta, però, andrebbe fissata l’attenzione su ciò che non è direttamente un problema di procedure, di gestione, di soldi, di organico e di qualità del servizio: basterà fissare standard più o meno sfidanti per individuare la bontà e l’efficacia di un servizio? Per quello che vediamo, l’università ha bisogno di un pensiero profondo, che aiuti a riprendere coscienza dell’unicità dell’istituzione accademica e consenta di ridefinire confini, modalità e scopi della sua azione. Questo prima di qualunque strategia economico-gestionale e qualsiasi procedura di valutazione. 



Proprio in questi anni così difficili, è purtroppo sconsolante notare come poche siano le personalità che si siano levate a proporre un pensiero critico rispetto all’università come istituzione, a come l’abbiamo svuotata o come potremmo farla risollevare, uscendo dalla semplice dialettica sui finanziamenti e le strutture di governo. Il dato è tanto più singolare se si pensa che normalmente nella nostra vita quotidiana, di fronte a situazioni difficili, problemi da risolvere o scelte da compiere, dovremmo naturalmente essere indotti a chiederci cosa stiamo facendo, quali siano le mosse migliori, ma soprattutto quali sono i reali motivi che ci spingono ad andare avanti, a migliorare, a voler cambiare la situazione presente.

Quando si arriva a parlare di università invece si attiva il mantra che tutti conoscono: la ricerca è il futuro del paese, i ragazzi devono formarsi e prepararsi all’ingresso nel mondo del lavoro, l’università è la culla della cultura di un paese, senza laurea non si può andare da nessuna parte, eccetera. Tutte cose condivisibili e buone, che però rischiano di coprire la radice profonda dell’incomprensione di origine, scopo e ruolo dell’istituzione universitaria sotto il velo di una serie di argomentazioni talmente ovvie da non poter non essere condivise da tutti.

Ci si potrebbe chiedere: negli altri paesi accade lo stesso? Basterebbe alzare lo sguardo per allargare la linea del nostro orizzonte casalingo e potremmo scoprire che il problema è molto più ampio di quello che possiamo vedere nel nostro paese. È il sistema dell’alta formazione universitaria in sé che va osservato, valutato, criticato e probabilmente rinnovato. Possiamo per esempio citare Ken Robinson, inglese che vive da una vita in California, il quale dice che il sistema universitario è in continuità con quello scolastico e ormai è una gabbia che rattrappisce la creatività degli studenti. Se pensiamo a Zuckerberg e Steve Jobs siamo tentati di dargli quasi ragione…

Quello che è interessante è che questo processo di critica è possibile se non si dà per scontata la presenza dell’università e la sua “missione” nella società e nella vita di un paese, finanche del mondo, ma si ha il coraggio di porsi le questioni più scottanti e urgenti, quelle per le quali bisogna prendere decisioni che esulano dal successo immediato, guardando lontano. 

Come spesso capita, in ambito universitario la realtà più vivace e interessante è quella americana. Le sue migliaia di università e college sono per molti versi esempio di quello che potrebbe essere l’università anche nel resto del mondo, e per diversi altri invece andrebbero emendate. Proprio sul tema della formazione universitaria un professore e commentatore americano sta sollevando diverse critiche e attenzioni da parte dell’establishment Usa: si tratta di William Deresiewicz, con il suo ultimo libro Excellent Sheep, un titolo già molto significativo. 

L’accusa è pesante: gli studenti delle migliori università sono zombie, la Ivy League è formata da università da ricchi che producono laureati figli di famiglie ricche che controllano la ricchezza della nazione, lo studente vive una drammatica perdita della consapevolezza del perché studia, fa un’esperienza universitaria che non educa e non forma, ma è funzionale al riconoscimento sociale, ecc. Come esempi, invece, Deresiewicz indica college meno famosi che permettono però una reale esperienza educativa: relazioni buone, passione per lo studio, prossimità dei docenti e dell’istituzione accademica, stimoli a risolvere problemi e a chiedersi il perché di quello che si studia, maggiore attenzione alla vita del ragazzo e non al successo come proiezione di sé nel futuro. 

Queste accuse, che danno la possibilità di scoprire reali problemi nell’istituzione universitaria, rischiano però di allargare troppo il campo, dando all’università colpe delle quali non è ultimamente responsabile: se l’università non introduce a un significato nel vivere, non è colpa dell’università stessa, ma del clima culturale complessivo dell’occidente avanzato, cioè di chi ultimamente ha in mano le leve per decidere dove tira il vento culturale del mondo in cui viviamo.

Si può restare ammirati della libertà con la quale gli americani accettano e desiderano di misurare criticamente l’efficacia delle loro secolari istituzioni, ma soprattutto dovremmo chiederci anche noi se per l’istituzione universitaria non sia arrivato il momento di un ripensamento in profondità. Deresiewicz propone un’analisi durissima e in larga parte condivisibile del sistema americano, ma esiste un Deresiewicz italiano? Ancora meglio: esiste un Deresiewicz che oltre a sottolineare errori accetti la fatica di indicare un orizzonte possibile per un cambiamento reale dell’università? 

La crisi e i cambiamenti rapidissimi cui siamo stati costretti negli ultimi vent’anni devono farci capire che è arrivato il momento di operare un’audace ed efficace operazione di rinnovamento innanzitutto culturale. 

Allora non sarà inutile chiedersi a cosa serve l’università e cosa è diventata, prima di piangere perché gli italiani spendono di più per il canone. Questa domanda è cruciale soprattutto all’inizio dell’anno accademico. È un anello di congiunzione fra scuola e mondo del lavoro? È un momento di crescita culturale? È il luogo della ricerca? Sono tutte cose verissime dal punto di vista “funzionale”, ma quella importante è un’altra, come lo stesso Deresiewicz sembra adombrare: il cuore profondo dell’università è un rapporto libero fra maestro e studenti, teso alla conoscenza del mondo. Un rapporto nel quale chi apprende sia libero di chiedere e appassionarsi e chi è lì per insegnare sia aperto e desideroso di incontrare la domanda di chi per la prima volta si affaccia alla vita adulta. Questo veramente prepara e forma la persona per l’ingresso della vita adulta: le dà audacia, passione, senso critico, capacità di adattarsi e risolvere problemi, gestire relazioni e situazioni gravi. Non si limita a fornire vuote “competenze” o sterili nozioni. 

Chiediamoci allora per un sistema a inerzia molto elevata come il nostro che cosa possa aiutare realmente la crescita dei nostri atenei. Il primo punto è una reale autonomia didattica, nelle forme e nei contenuti. Libera docenza in libera accademia. E ovviamente abolizione del valore legale del titolo di studio: la riforma delle riforme.

Il secondo punto è eminentemente culturale: professori e personale docente e non docente hanno un solo obbligo: prendersi cura − attraverso il duro lavoro della didattica universitaria − delle persone che incontrano, in modo creativo, appassionato e realmente sfidante per la persona. 

Dove già accade, là si fa esperienza dell’università, nonostante tagli e problemi organizzativi, anche quando ci si trovi fuori dal canonico perimetro accademico: associazioni, fondazioni, circoli culturali, aziende sono soggetti attivi che vanno guardati e coinvolti nello sviluppo di una pluralità di offerta di formazione post-scolastica realmente al servizio degli studenti e non del “sistema-paese”. Perché l’educazione e la formazione hanno a che fare con la persona, non sono strategie al servizio del potere. Trattenessimo questo da questi lunghi anni di travaglio, crisi e cambiamento, sapremmo con certezza da dove ripartire.

PS. Il premier Matteo Renzi, dopo l’uscita della piattaforma di discussione sulla Buona Scuola, ha in serbo da qualche parte una riflessione profonda sull’università. Per conto nostro, vorremmo poter inaugurare una linea di lavoro, confronto e discussione che su questi temi in modo aperto e franco possa porre domande, sollevare obiezioni, raccontare storie di un mondo − quello universitario − che sempre di più necessita un allontanamento da ciò che potrà nel tempo lentamente addormentarlo, ovvero la scontatezza, per evitare che lo uccida nel sonno.