La pubblicazione nel cuore dell’estate probabilmente non ha favorito l’attenzione verso la nota della Commissione episcopale per l’educazione cattolica, la scuola e l’università della Conferenza episcopale italiana, dedicata a La scuola cattolica risorsa educativa della chiesa locale per la società. È un peccato, perché i temi trattati propongono un importante materiale di discussione non solo (ovviamente) per la scuola cattolica e per la Chiesa, ma per l’intera società italiana.
Il filo del discorso del documento è abbastanza semplice: la scuola cattolica offre un suo contributo peculiare alla società italiana; tuttavia, le condizioni per poter dare tale contributo in una situazione di parità e pluralismo non sono realizzate. È necessario quindi che all’impegno per rafforzare la caratteristiche e la qualità della scuola cattolica si accompagni quello per rendere operanti gli impegni che finora l’Italia ha disatteso.
Evidentemente è quest’ultimo aspetto che attira di più l’attenzione: sia perché riguarda il punto più dolente della situazione attuale delle scuole cattoliche (innumerevoli sono quelle che hanno dovuto chiudere o probabilmente dovranno farlo per difficoltà economiche), sia perché tocca alcune corde che nel dibattito pubblico hanno immediata risonanza, specialmente in una società come quella italiana in cui ha ancora connotazioni negative l’aggettivo «privato» (che peraltro le scuole cattoliche in genere non amano e che è quasi inesistente nel documento in oggetto).
Per togliere ogni equivoco diciamolo dunque subito: è inammissibile che l’Italia, praticamente unica tra i paesi europei, non abbia realizzato quelle condizioni di parità economica che permettono un’effettiva libertà di scelta alle famiglie e agli studenti, e questo tanto più in un tempo in cui la «differenza culturale» è diventata quasi un idolo. Detto rozzamente, è come se un Comune affidasse la manutenzione di un giardino pubblico ad una società e poi si rifiutasse di pagarla, pretendendo che siano i frequentanti del giardino ad aprire il portafogli (e lo Stato di fatto affida l’istruzione di un milione di cittadini alle scuole non statali).
Certo: non tutto brilla tra le scuole paritarie, e sarebbe un’ottima cosa se l’istaurazione di un’effettiva parità fosse l’occasione per cancellare una volta per sempre impresentabili diplomifici, che non mi risulta si nascondano tra le scuole cattoliche: ma tollerare questi e punire tutti è inaccettabile. Parimenti inaccettabile è che «l’Europa lo vuole» sia periodicamente il grido di battaglia per far ingoiare i bocconi più amari, ma che esso stranamente scompaia quando si tratta di provvedimenti che non piacciono, o si teme non piacciano ad un certo bacino elettorale: almeno un po’ di coerenza sarebbe gradita.
Eliminato ogni possibile equivoco, vogliamo però spiegare perché a nostro avviso il discorso dovrebbe essere un po’ più articolato. Il motivo ultimo e più solido che giustifica un sistema in cui siano presenti, a pari condizioni, istituzioni educative non gestite dallo Stato, è che esse possono avere un determinato orientamento culturale e pedagogico, diverso da quello generale dello Stato. Fa dunque benissimo la Nota della Cei a porre anzitutto non la rivendicazione della parità, ma quella della propria specificità.
Il problema è che proprio questo primo passo non è del tutto convinto, e dunque non del tutto convincente. La Nota ripete molte volte (sei per l’esattezza) che la scuola cattolica svolge un compito «evangelizzatore». Viene con forza argomentato che la scuola cattolica è componente della «comunità ecclesiale», e che questa anzi è la sua prima nota distintiva. Si chiarisce che la proposta culturale della scuola cattolica «intende far sintesi tra fede e cultura e tra fede e vita».
Quando crede di aver capito, il lettore apprende che però «la scuola cattolica non è propriamente parlando un’istituzione educativa confessionale», e che questo anzi è uno dei «pregiudizi» da superare. Motivo? «Essa si pone per suo statuto al servizio di tutti e accoglie tutti, con l’obiettivo primario di curare l’educazione della persona e promuoverne la crescita libera e umanamente completa», dunque non può escludere nessuno, in particolare chi pur non essendo cattolico accetta il suo progetto educativo.
Non ci vuole molto sforzo per comprendere quale situazione cerchino di descrivere queste espressioni: da una parte la scuola cattolica propone il più possibile e il meglio possibile un orientamento cristiano; dall’altra parte spesso viene scelta non per questo, ma piuttosto per la qualità dell’insegnamento e della gestione, e anche per quei valori di convivenza che in ultima analisi sono (per un cristiano) radicati nel Vangelo e tuttavia sono (per tutti) interpretabili come dimensioni umane, per esempio di accoglienza e di attenzione alla persona. Dunque, anche una persona esplicitamente non credente, o di altra religione (un caso questo via via più frequente), può essere accolta in una scuola cattolica, così come tutti quei ragazzi che, dopo un’adesione infantile alla fede o alla vita cristiana, in maniera più o meno convinta la stanno abbandonando. Il confine tra i vari tipi di scelta è del resto molto sfumato in una nazione come l’Italia in cui il cristianesimo gode malgrado tutto di una grande stima pubblica. Nella parlata romanesca, l’aggettivo «cristiano» significa «ben fatto, presentabile, curato»: ecco, spesso le scuole cattoliche vengono scelte solo perché «cristiane».
Il problema è che tale equilibrio è difficile, tanto più che le sfumature sono sì preziose ma rendono anche possibili continui slittamenti. Insomma, la specificità cattolica rischia di essere proposta con una tale delicatezza, discrezione e rispetto dell’altro da diventare evanescente. Basta leggere a mo’ di confronto il piano dell’offerta formativa di una scuola ebraica italiana per vedere come il fatto di poter contare su famiglie e studenti interamente convinti (almeno culturalmente: ma l’essenziale di una scuola è lì!) rende molto meno timidi nel presentare obiettivi chiari ed esigenti.
Timori infondati? Coloro che sollecitano lo Stato italiano ad emanare norme che rendano effettiva la parità fanno benissimo a ricordare che ciò avviene anche nella laicissima Francia; bisognerebbe però anche dire che uno dei problemi là più dibattuti riguarda le scuole che, al dire di molti, di cattolico hanno ormai solo il nome: ed è esattamente questa situazione che spinge molti a volere scuole cattoliche completamente a pagamento (hors contrat), ma libere anche da ogni vincolo statale e da ogni tentazione di omologarsi alla cultura circostante.
Negli stessi giorni in cui la nota della Cei sottolineava il grande valore dell’accoglienza universale, una nota rivista cattolica francese dava voce ad una madre delusa e irritata: «La Scuola cattolica accoglie tutti, c’est très bien, ma i credenti sono un po’ l’ultima ruota del carro. Talvolta si ha l’impressione che la preoccupazione principale sia di non mostrare il carattere cattolico della scuola: i pellegrinaggi ribattezzati “gite scolastiche”, gli interventi di esperti che vengono a fare conferenze su temi sempre profani, i corsi dove si potrà “discutere” sull’aborto o l’eutanasia senza che sia mai menzionata l’antropologia cristiana». E se il sale perde il suo sapore… Certo, la situazione francese è molto diversa (in particolare in Italia mancano, e fortunatamente, quei due estremi di cattolicesimo secolarizzato e tradizionalista che invece sono frequenti in Francia). Ma prima di qualificare questi rischi come remoti bisogna essere cauti.
Insomma: sulla questione della specificità bisognerebbe riflettere un po’ di più. Ciò che a nostro avviso è decisivo è porre chiaramente il problema culturale. Non vogliamo negare che anche la scuola, almeno in un certo senso, possa svolgere un ruolo «evangelizzatore»: ma la modalità specifica di una scuola è quella della cultura e di ciò che significa trasmetterla, elaborarla, condividerla. Se manca questo, manca l’essenziale.
Questo per una scuola cattolica vale almeno da tre punti di vista.
Uno è quello della specificità dei contenuti dell’insegnamento. Ciò ha evidentemente un peso più grande nel campo umanistico: la tradizione cristiana ha prodotto una quantità enorme di letteratura, di arte, di pensiero, che non solo talvolta sono emarginati nei normali programmi di insegnamento, ma che non ci sarebbe nulla di male a sovrarappresentare all’interno di una scuola cattolica. Ma anche nel campo scientifico (per esempio in sede di storia della scienza) molti puntini sulle i potrebbero essere messi (quelli che consentono di formulare ipotesi, per esempio, sul motivo per cui la «rivoluzione scientifica» è avvenuta in una civiltà cristiana).
Un secondo punto di vista è quello dell’importanza della cultura in quanto tale. Non c’è bisogno di citare i monasteri benedettini per mostrare il ruolo cruciale che nella storia dell’Occidente (e anche dell’Oriente, peraltro) ha svolto il cristianesimo non soltanto nella preservazione, ma anche nell’elaborazione di una cultura nuova. La fede che ha ricordato che la salvezza non è assicurata «ai sapienti e agli intelligenti» è anche paradossalmente quella che di più ha curato il sapere, in uno scambio continuo con le culture ambienti.
Un terzo punto di vista è quello che riguarda le modalità della trasmissione e creazione della cultura: anche qui, la tradizione cristiana ha sviluppato un tesoro pedagogico ricchissimo, se non altro perché poteva partire dall’idea di un essere umano libero, responsabile e con una vocazione straordinariamente alta, non quella di un essere bisognoso di terapie o di una macchina da programmare.
Ovviamente si tratta di affermazioni che devono essere precisate e contestualizzate, ma che nella loro sostanza non possono essere confutate. Sono solo queste, tra l’altro, che consentono di non poggiare le rivendicazioni di parità su scivolose considerazioni liberali: la cultura cattolica merita di essere sostenuta perché (come tante altre, ovviamente) porta un contributo plausibilmente buono, non perché ognuno abbia il diritto di insegnare quello che gli pare e come gli pare. Discorso delicato, nel quale non possiamo entrare qui con più dettaglio.
Comunque: sorprende un poco che, tutte le volte in cui temi squisitamente culturali e pedagogici entrano nel dibattito pubblico, la voce delle scuole cattoliche e dell’esperienza pedagogica cattolica, che sarebbe così preziosa, sia invece tanto difficile da ascoltare o riconoscere. Qualche esempio a caso. La recente vicenda dei «disturbi specifici dell’apprendimento» ha sollevato questioni enormi sia culturali, sia pedagogiche, sia antropologiche. Dov’erano le scuole cattoliche e la loro esperienza? e dov’erano quando sono state emanate le Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione, in cui intere discipline sono state ridefinite e (a detta di qualcuno) stravolte?
Tuttavia, non bisogna sempre accusare i giornalisti: le responsabilità dall’altra parte ci sono eccome. Il problema è che, se nella società civile il ruolo della cultura è sottostimato, nella Chiesa le cose non vanno molto meglio. La Nota della Cei con amarezza rileva più volte che uno dei problemi fondamentali è che alla Chiesa italiana della scuola cattolica non importa poi un granché. Ma il problema, ahinoi, non è solo con la scuola cattolica: il problema è con la scuola cattolica, con la scuola in generale e con la cultura in generale. Certo, la cultura è ritenuta una cosa utile per dialogare tra credenti e non credenti: ma questa idea pur giusta non è sufficiente. Antonio Rosmini sosteneva che la «carità intellettuale» è più importante di quella «temporale», perché la povertà di cultura è più grave di quella materiale: chi potrebbe ripetere oggi queste cose senza essere guardato con sospetto? Quanti oggi nella Chiesa si azzarderebbero a presentare la scuola come un luogo dove (banalmente) si studia e ci si prepara?
C’è invece un’altra sottolineatura sulla quale c’è da esprimere la più totale condivisione. Uno dei due punti capitali della Nota, abbiamo detto, è la richiesta di una reale situazione di parità economica. Senza di essa, si ripete, la vocazione della scuola cattolica ad essere luogo di promozione per i più poveri diventa impossibile. Giustissimo. L’unica annotazione che ci sentiamo di aggiungere è che probabilmente, se questa idea fosse stata espressa con più tempestività, tanti disastri sarebbero stati evitati. Più volte nella Nota si fa riferimento all’analogo testo del 1983 (La scuola cattolica, oggi, in Italia), a volte citato alla lettera. La lettura a trent’anni di distanza è istruttiva. Ciò che soprattutto colpisce è l’esiguità dello spazio allora dedicato al tema della parità economica: esso, dopo un fugace cenno all’inizio, viene velocemente ripreso con enunciazioni di principio riguardo al principio di sussidiarietà e poi solo qualche riga prima della conclusione, in maniera peraltro vaga («lo stesso trattamento sia garantito agli alunni che frequentano le scuole non di stato come a quelli che frequentano le scuole di stato»).
Non bisogna meravigliarsi: certamente c’è stata un’evoluzione del dibattito in materia, certamente la crisi economica (insieme con un notevole disincentivo all’investimento nell’istruzione) ha fatto esplodere una crisi che trent’anni fa non esisteva: si poteva anzi allora registrare un «aumento di domanda verso il servizio della scuola cattolica». Ma il problema già c’era chiaramente. L’unica ipotesi possibile è che le voci che chiedevano le condizioni per poter svolgere azione di promozione culturale e umana tra i meno abbienti non avevano troppa eco. Non ci si può che rallegrare che le cose siano cambiate: troppo tardi, ma sono cambiate. Ma non è mai troppo tardi per creare la situazione in cui la scuola cattolica possa tornare a portare anche e soprattutto nelle periferie degradate cultura, scienza, poesia, pensiero, umanità.