Con il prossimo anno scolastico entra a regime il riordino della scuola superiore. Che cos’è realmente cambiato, in particolare nel segmento dell’istruzione tecnica e professionale? L’argomento non è certo circoscrivibile a un breve articolo, dal momento che i decreti hanno toccato aspetti ordinamentali, organizzativi, gestionali e didattici per i quali occorrerebbero analisi approfondite. Mi limito, perciò, volutamente, solo a due – delle tante possibili – annotazioni/impressioni, che ho tratto dalla mia esperienza, di ordine squisitamente didattico: ovvero le Linee guida, e quindi l’autonomia didattica e organizzativa ad esse sottesa e le competenze.
È sempre interessante notare come esista uno iato – talvolta profondo – tra le leggi, o meglio le intenzioni del legislatore, e la ricezione delle stesse a livello dei cittadini. I decreti istitutivi (Dpr n.87 e n. 88, 15 marzo 2010) hanno voluto disegnare un nuovo assetto dell’istruzione tecnica e professionale – condivisibile o meno –. Ciò che è stato colto a livello di base, però, sono stati solo alcuni aspetti “collaterali” per il legislatore, ma centrali per i fruitori, ossia i docenti (e gli alunni): in particolare il riordino è stato identificato con la riduzione dell’orario curricolare e quindi con la conseguente diminuzione delle ore laboratoriali. D’altra parte il contraccolpo è stato forte, se pensiamo che si è passati, in brevissimo tempo, da 36, 38 o addirittura 40 ore di alcuni istituti nel triennio, a 32 ore: un cambiamento non da poco, in termini di cattedre, che si sono quasi volatilizzate. In particolare, la drastica riduzione di ore delle materie di indirizzo ha costretto alcune discipline a perdere di significatività, necessaria invece per gli stessi studenti che hanno scelto profili in uscita ben connotati.
Se è vero che una revisione a livello centrale sarebbe doverosa – e sta già avvenendo con il DL 104/2013 – soprattutto per far rientrare queste criticità che si sono manifestate alla prova dei fatti, al di là delle intenzioni del legislatore; è pur vero che i docenti, stritolati nel vortice del nuovo ingranaggio, preoccupati soprattutto di mantenere la cattedra, o di non cambiare materia di insegnamento, hanno badato molto agli allarmismi mediatici e poco alle novità, che invece – ci sembra – avrebbero potuto e possono ancora diventare un bel grimaldello per sciogliere alcuni di questi nodi problematici: ci riferiamo, come abbiamo accennato, in particolare alle novità dell’autonomiaespressa nelleLinee guida e alle competenzeanche se non andrebbero taciuti altri elementi significativi: la spinta data a collaborare con il territorio, il potenziamento dell’alternanza scuola/lavoro, la creazione del comitato tecnico scientifico e dell’ufficio tecnico).
Già nella loro definizione, le Linee guida esprimono un nuovo modo di concepire i contenuti d’insegnamento, che non sono più programmi prescrittivi, ma appunto solo linee guida, come peraltro previsto dal decreto sull’autonomia (Dpr 275/99).
Molto si è detto sull’autonomia didattica e organizzativa dei docenti, ma la pratica sembra ancora molto distante dalla teoria ( soprattutto se – come purtroppo è accaduto –, essa viene utilizzata solo per salvare l’organico: scelte ben comprensibili, che però raramente vengono sottoposte ad una seria autovalutazione).
Proviamo ad immaginare come l’autonomia didattica potrebbe essere utilizzata per mitigare alcune delle criticità appena descritte, facendo un esempio tra gli innumerevoli possibili: nel triennio degli istituti tecnici le ore di italiano sono state incrementate per colmare le lacune degli alunni, effettive e preoccupanti. Che cosa impedisce, ad esempio, di progettare un percorso in cui il docente di lettere “utilizza” una sua ora per costruire un percorso interdisciplinare con un collega di materie di indirizzo, in cui fare italiano “con le scienze” o “con la matematica” o con qualsiasi altra disciplina? Ovvio che stiamo parlando di italiano come competenza: quindi scrivere, comunicare, leggere (d’altra parte l’orario curricolare è stato accresciuto con questo scopo).
Impossibile? Complicato? Forse. Ciò che interessa sottolineare, però, è che la necessità determinata dalla contingenza potrebbe aprire a percorsi innovativi e interdisciplinari. L’ora di italiano potrebbe infatti essere svolta in forma laboratoriale, e potrebbe diventare un’interessante sperimentazione per far parlare/scrivere/leggere gli studenti rispetto ad attività che destano il loro coinvolgimento e per supplire – seppur parzialmente – alle restrizioni di orario curricolare delle materie professionalizzanti.
Concretizziamo l’exemplum: in un istituto agrario, ad esempio, l’ora di italiano potrebbe essere svolta in azienda agraria: gli studenti potrebbero – ma si tratta sempre e solo di ipotesi – organizzare una piccola mostra sulla storia dell’agricoltura (italiano, storia) attraverso la coltivazione di piante, utilizzando semi di piante originarie o modificate dall’azione dell’uomo (scienze, agronomia, biologia ecc.).
Ovviamente altrettanto potrebbe essere fatto in un laboratorio di meccanica (storia della meccanizzazione) di elettrotecnica (storia delle scoperte scientifiche) e così via, da modulare a secondo delle disponibilità e competenze dei docenti e degli interessi degli studenti.
Sarebbero esattamente queste delle situazioni, capaci di attivare le competenze dei ragazzi. Ed è la competenza il secondo dispositivo didattico che vorrei sottolineare.
Si intuisce – mi sembra – già dal piccolo esempio riportato, come la competenza altro non sia che la piena valorizzazione delle conoscenze e delle abilità apprese dagli studenti. Non vogliamo qui soffermarci sul tema che è un vero ginepraio, visto che vi sono varie scuole di pensiero, ma solo evidenziare quanto possa diventare una risorsa. In questa direzione vanno lette anche le esperienze di alternanza scuola/lavoro, che sono un’altra grande opportunità per la scuola italiana.
Il fatto è che la competenza è entrata nell’orizzonte dei docenti della scuola superiore come una specie di meteora, un oggetto non ben identificato: troppo spesso le azioni di accompagnamento previste dal ministero l’hanno proposta come un oggetto burocratico, formalizzato, meccanico, da ottenere attraverso strani algoritmi e protocolli (chi non conosce la famosa “formula” conoscenze + abilità = competenze?). Eppure in educazione niente è più sterile di una formula.
Non raramente sono state richieste ai collegi delle programmazioni per competenze dall’oggi al domani e la messa in atto delle cosiddette prove esperte o compiti di realtà, riducendo la portata innovativa a puri adempimenti formali. Perché stupirsi se a molti docenti si rizzano i capelli, appena sentono parlare di competenze?
Per fortuna, non pochi sono stati i dirigenti, i collegi o i singoli insegnanti che, invece, si sono posti in modo positivo e hanno messo in atto esperienze innovative.
In particolare vorremmo che venisse riconsiderata e valorizzata l’esperienza dell’istruzione e formazione professionale (IeFP). Perché? Anche in questa circostanza, occorrerebbe una disamina più articolata. Mi limito ad osservare che nei corsi di IeFP (mi riferisco in particolare ai corsi del Nord Italia che maggiormente conosco, con altre lodevoli esperienze sparse in tutta Italia) la didattica per competenze è una realtà, dal momento che non si valuta utilizzando i voti, ma certificando. Sia ben chiaro: non sono esempi scevri da limiti, anzi! Il peso burocratico e certe ingerenze nell’area didattica sono – a mio parere – eccessive e inopportune, soprattutto per l’IeFP (sia in sussidiarietà integrata sia complementare), legata agli istituti statali professionali.
Ciò che mi sembra invece interessante – e da valorizzare – segnatamente per la sussidiarietà complementare (che prevede sezioni presso gli istituti professionali espressamente finalizzate al rilascio delle qualifiche triennali e dei diplomi professionali quadriennali), è l’assetto organizzativo, l’ossatura, l’idea di scuola che ci sta dietro: finalmente – per qualcuno sarà un purtroppo – il progetto educativo viene sviluppato solo sulle competenze del profilo in uscita; non esiste più l’obbligo dei manuali; alcune Regioni, come la Lombardia, danno alle scuole l’opportunità di individuare direttamente gli insegnamenti e le classi di concorso ritenute più utili al raggiungimento del profilo, sulla base di una specifica tabella; e le ore di lezione – pur subordinate ad una quota complessiva – possono essere suddivise autonomamente dalle scuole; ampia è la disponibilità laboratoriale; possibili le ore di codocenza; e così via.
Insomma, un impianto didatticamente flessibile, che permette ai docenti di esprimere la loro autonomia didattica ed organizzativa, finalizzata all’attivazione di competenze, peraltro comuni a più discipline – forse che la competenza comunicativa o argomentativa sia solo questione dell’insegnante di italiano? –.
Ribadiamo, i limiti dell’IeFP sono molti, ma perché non pensarla come un possibile esempio anche per la scuola tecnica e professionale? Ricordiamo che con la L. 53/2003 anche l’IeFP è diventata istruzione a pieno titolo: ora, forse proprio quello che è considerato l’ultimo segmento del sistema di istruzione tecnica e professionale potrebbe diventare un esempio a cui guardare.
Una riforma ha bisogno di tempi lunghi e misure di accompagnamento: allo Stato chiederemmo di ripensare ad un rilancio dell’istruzione tecnica e professionale e dei germi fecondi contenuti nel riordino, attraverso una formazione che valorizzi le esperienze in atto, frutto della creatività e professionalità dei docenti, in particolare dei percorsi di IeFP (e le associazioni professionali potrebbero esserne il tramite naturale).
Il rinnovamento è un processo che nasce dallo stupore per qualcosa di bello e interessante, non per obbligo di legge. Le esperienze ci sono: allo Stato spetta perciò di sfruttarle, applicando fino in fondo una politica sussidiaria.