Nei giorni in cui il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini propone l’ennesima rivoluzione per la scuola e della maturità per l’anno prossimo, viene voglia di confrontarsi con gli altri Paesi e vedere che cosa succede. 

Il recente rapporto dell’Ocse sulla scuola pubblicato il 9 settembre, a proposito dell’Italia sintetizza in questo modo la nostra condizione: “Se non serve a trovare lavoro, non studio. Con le sempre maggiori difficoltà incontrate nella ricerca di un lavoro, la motivazione dei giovani italiani nei confronti dell’istruzione è infatti diminuita. I tassi d’iscrizione all’università in Italia hanno segnato una fase di ristagno o sono diminuiti negli anni più recenti e il numero di studenti che abbandonano precocemente gli studi ha smesso di diminuire dopo il 2010. Nel 2012, quasi un giovane su tre (32%) dai 20 ai 24 anni di età non lavorava e non era iscritto a nessun corso di studi (in aumento di 10 punti percentuali rispetto al 2008)”. 



Ma quanto investe il nostro Paese in un settore tanto importante? Intorno al 4% del Pil, un dato decisamente inferiore alla media europea (oltre un punto percentuale in più) e lontano anni luce dagli Usa che le dedica circa il 7% avendo un Pil 8 volte superiore. Ancora, gli Stati Uniti spendono per ogni studente della scuola primaria e secondaria più di ogni altro Paese (Svizzera esclusa) con una quota di 100mila dollari all’anno. Se guardiamo l’elenco delle migliori venti università al mondo stilato dall’Institute of Higher education di Shangai, rimaniamo di stucco, ma fino a un certo punto: a parte Oxford, Cambridge e Tokyo, tutte le altre sono a stelle e strisce. Se parliamo delle prime cinquanta, la situazione non cambia di molto: ben 34 sono americane. 



Ma in cosa si traduce questa supremazia? Facciamo qualche esempio. Stanford, che ha una storia relativamente recente essendo nata nel 1891, ha sfornato oltre 50 premi Nobel. E ancora. Se guardiamo al numero di brevetti triadici, ovvero quelli registrati in Usa, Ue e Giappone, gli Stati Uniti viaggiano tra i 10mila e i 16mila all’anno. 

Si potrebbe pensare che sia soltanto una questione di soldi, ma non è così semplice. Qui emerge, infatti, un altro tema forte che contrappone Europa (e Italia) alla visione americana. La dicotomia tra uguaglianza ed eccellenza. “Data la loro missione – ci ricorda Josef Joffe in Perché l’America non fallirà – gli atenei adatti a tutti, comuni in Europa e in gran parte del mondo, non possono che privilegiare l’uguaglianza rispetto all’eccellenza, e l’uniformità rispetto alla differenziazione in base a compito e talento… I governi preferiscono mediare tra interessi acquisiti, e quindi gestire lo status quo, anziché incoraggiare la diseguaglianza, che è gemella siamese dell’eccellenza accademica”.



Il riscontro oggettivo della produttività della filosofia americana è che nella graduatoria delle migliori università di Shangai cui accennavamo in precedenza, il primo ateneo europeo è Copenhagen che si colloca al 40° posto. Per trovare università italiane bisogna arrivare nella sezione 151-200 dove compaiono Bologna, Milano, Padova, Pisa, Torino. 

“Tutto lascia pensare che l’università e la scuola non siano viste dai ragazzi e dalle loro famiglie come un aiuto per migliorare la loro posizione sul mercato del lavoro, ma come parte del problema”, spiega Francesco Avvisati (Ocse), autore della nota sull’Italia. Il sistema di istruzione, in particolare la formazione professionale nelle scuole, nel post-secondario e anche nelle università, devono essere al centro di una strategia per creare e valorizzare le competenze di cui l’economia ha bisogno”. 

Il dato più positivo per l’Italia che emerge dal rapporto Ocse è il miglioramento della qualità dell’istruzione di base. L’Italia è uno dei tre paesi, insieme a Polonia e il Portogallo, ad aver ridotto tra il 2003 e il 2012 la quota di quindicenni in grave difficoltà in matematica e al contempo aumentato la quota di quindicenni nella fascia alta di competenze. Ma l’Italia è anche l’unico paese ad aver ridotto, tra il 2000 e il 2011, la spesa pubblica per l’istruzione primaria e secondaria, in gran parte attraverso la riduzione del numero di docenti che prima era uno dei più elevati in assoluto. Sarebbe bello che al di là delle riforme che ogni ministro propone, e che ogni successore cambia, ci fosse un dato comune. L’incremento della quota di investimenti. Citiamo sempre gli Stati Uniti come modello. Perché non seguirli anche in questo?