Il piano di potenziamento della scuola presentato nelle scorse settimane dal premier Matteo Renzi e dal ministro dell’Istruzione Stefania Giannini offre l’opportunità di una ampia riflessione su ciò che istruzione, formazione e scuola rappresentano per il futuro del Paese. Senza una “buona scuola” (questo il titolo del documento programmatico) non si può immaginare un futuro di crescita e di sviluppo. Ma cos’è una “buona scuola”?



È improbabile (forse impossibile) che la risposta a questo interrogativo possa venire dalla mega consultazione on line che il governo ha aperto il 15 settembre scorso. In tempi andati, ma non lontanissimi, iniziative del genere furono intraprese dai ministri Berlinguer e Moratti senza apprezzabili risultati, anzi i loro progetti di riforma non ebbero seguito. Il sistema scolastico è un organismo assai articolato e ad alta complessità ed è illusorio immaginare che milioni di pareri espressi sui più disparati argomenti possano risultare utili.  



La consultazione è una grande operazione mediatica che potrà rivelarsi utile se riuscirà almeno ad avvicinare una quota di opinione pubblica alla questione scolastica; ma sul piano politico-scolastico è difficile che da essa scaturisca alcuna indicazione davvero significativa per orientare la scuola italiana. Staremo a vedere. 

È invece facile prevedere che dietro le umanamente comprensibili pressioni (un po’ meno comprensibili se viste dal punto di vista del sistema: è previsto che sia stabilizzato infatti un “pacchetto” consistente di docenti a scatola chiusa) dei 150mila precari ai quali è stato promesso un posto stabile – il famoso “posto di ruolo” –, la prevalente attenzione finisca per concentrarsi sui tempi e sulle modalità attraverso cui questo obiettivo sarà conseguito.



Se così fosse, ovviamente speriamo che ciò non accada, la scuola sarebbe nuovamente vista (così è spesso accaduto in passato) come un semplice luogo di assorbimento di laureati che diversamente non saprebbero ove trovare altra occupazione. Troppo poco per dire che si lavora per la “buona scuola” e che “si investe sulla scuola”. 

Va riconosciuto che il documento Renzi-Giannini al riguardo mette le mani avanti: per gran parte esso è infatti segnato dalla preoccupazione di disporre di insegnanti all’altezza del compito culturale ed educativo loro richiesto. Il proposito di migliorare la professionalità del corpo insegnante, di restituirgli una visibilità sociale positiva, di associare all’idea di docente una profondità educativa (e non solo legata all’acquisizione delle onnipresenti competenze) è altamente condivisibile. 

Del resto è proprio questa la condizione perché la scuola sia “di qualità”: una scuola è “buona” perché ci sono insegnanti validi e cioè competenti sul piano culturale e capaci di parlare ai ragazzi. Quando queste condizioni si verificano si azzera quella terribile frase che spesso sentiamo ripetere dai ragazzi: “la scuola non serve a niente”.

Là dove ci sono docenti “buoni” c’è anche una scuola “che serve” perché si apprende in modo serio e nella quale si sta anche “bene” (la scuola che non è un “meccanismo” ben oliato, ma un luogo vitale popolato da persone); una scuola che non ha paura delle valutazioni esterne perché chi vi opera ha le carte in regola per dimostrare che è stato compiuto ogni forzo per rispondere alle aspettative delle famiglie; una scuola nella quale genitori e insegnanti non si percepiscono come “controparti” reciproche, ma come “alleati” nel grande compito di crescere bene i rispettivi figli ed allievi. Una scuola, infine, capace di trasmettere non solo nozioni, ma anche di proporre orientamenti ideali e cioè una scuola educativa. 

Questo è quello che gli Italiani vogliono dalla scuola: un luogo (possibilmente pulito e in regola) dove si studia, si impara, si stabiliscono relazioni positive con docenti e compagni, si promuovono stili di vita basati sulla capacità di ragionare con la propria testa, dove il principio di equità è posto a criterio perché “nessuno resti indietro”. 

Se il piano di Renzi-Giannini sarà guidato da queste preoccupazioni potrà concorrere a raddrizzare in modo virtuoso la scuola italiana. Se invece prevarrà, ancora una volta, il criterio della scuola come semplice spazio per ridurre il precariato intellettuale, si sarà persa una grande opportunità.