Pubblichiamo la comunicazione tenuta da Maurizio Carvelli, ad della fondazione Ceur, sul tema “Università e lavoro” in occasione dell’ultimo Meeting di Rimini.
Ho creato la fondazione Ceur insieme ad altri amici. Scopo della fondazione è la gestione di Collegi di merito per studenti universitari, ce ne sono otto in tutta Italia, e ospitano 800 ragazzi, sotto il nome di Camplus. Sono riconosciuti e vigilati dal ministero dell’Istruzione , dell’Università e della Ricerca. Il primo metodo che utilizziamo è che tutti gli studenti siano inseriti in una community, dove ciascuno viene seguito da un direttore e da tutors lungo tutto il percorso accademico, fino all’inserimento nel mondo lavorativo e anche oltre, come dimostra la realtà degli ex alunni che ha raggiunto il numero di più di 3mila giovani in rete tra loro. Secondo elemento di metodo sono le proposte culturali, formative, di vita e per quel che riguarda l’introduzione al mondo del lavoro le proposte di stage o tirocini formativi.
Tali proposte vengono vissute e partecipate dagli ospiti e permettono di far convivere l’ingegnere con il letterato, con il medico ecc.., per cui l’ingegnere partecipa alle conferenze sulla poesia e la musica o l’astrofisica e il letterato partecipa a incontri sulle scoperte scientifiche o la matematica. Il fil rouge è proprio l’interdisciplinarietà; come dice la parola stessa, università, universitas è l’apertura al tutto e la ricerca di nessi.
La scommessa del Camplus è nella proposta di un percorso che permetta di far sviluppare nei ragazzi una personalità capace di mettersi in relazione con il mondo, di diventare curiosi, perché quando queste persone arriveranno al mondo del lavoro, abbiano quelle caratteristiche tanto care alle aziende che consistono non solo nell’avere le competenze e una preparazione, di cui si preoccupa l’università con i suoi percorsi accademici, ma appunto la capacità di relazionarsi con la realtà, di scegliere, anche perché molte delle competenze con cui gli studenti escono dall’università saranno poi implementate e completate dal mondo professionale stesso.
Ecco questo è, in sintesi, Camplus, creare attraverso la relazionalità le condizioni perché ciascuno tiri fuori il meglio di sé.
A me preme adesso, attraverso alcune esemplificazioni, spiegare l’origine, il nodo vero da cui partiamo.
Per me la parola decisiva nel rapporto tra università e mondo del lavoro è talento, più che la parola merito. Anche se il nesso tra loro esiste ed è importante. Sono comunque due parole oggi abusate. Tutti parlano di merito, valorizzazione del talento, in tutti i convegni, perfino leggi, articoli, saggi. Ma come far sì che il talento venga fuori e che parlarne non resti un esercizio evanescente?
Che cosa è il talento? Uno scrittore (Alessandro D’Avenia) dà questa definizione del talento: “è la forza di gravità che porta un uomo e una donna a occupare il proprio posto nel mondo, perché è il suo modo unico e irripetibile di relazionarsi con il mondo”. Tutti, dunque, hanno un talento.
Il talento è il carattere, la caratterizzazione della persona, del nostro io, è una qualità personale non generica, è come un timbro che noi abbiamo addosso e con cui affrontiamo tutto, è ciò attraverso cui identifichiamo noi stessi e non altri, un carattere con cui scriviamo le nostre parole, il carattere con cui Dio ha scritto la nostra natura. Con il talento si identifica sia chi lo ha, che l’opera, il lavoro che uno fa. Ecco nel nostro lavoro il punto è che ciascuno scopra il proprio talento, questo timbro.
Poi c’è una seconda parola collegata alla parola talento che è la parola ideale. Oggi tutti parlano di talento ma nessuno parla di ideale, invece queste due parole sono interconnesse. Perché il talento non ci è dato per narcisismo, per vederci allo specchio e dirci quanto siamo bravi o sfigati. E’ essenziale la parola ideale. Io l’ho capito dalla parabola dei talenti del vangelo, che ha introdotto nella nostra cultura la questione dei talenti.
Il padrone, cioè Dio ha dato a ciascuno dei talenti, chi uno, chi due, chi cinque. Poi caccia il primo e accoglie gli altri due. Perché? Qual è il significato della parabola? Questa parabola riguarda tutti quelli che devono fare una scelta. La mia domanda iniziale era: perché non ha dato a tutti lo stesso talento? Non sarebbe democratico… In realtà è evidente, e la spiegazione sta nel fatto che non siamo tutti uguali. L’equivoco vero è che anche un talento è moltissimo perché, come dicevo prima, è tuo, ti è stato dato, qualunque esso sia, è il tuo carattere, ciò che mi è stato dato fra le mani.
Ma Il punto decisivo è che qualcuno ti chiederà conto di quello che ti è stato dato. Primo: Qualcuno me l’ha dato, mi ha donato questo carattere, questa forza di gravità. Secondo: qualcuno me ne chiede conto. Qui è la questione per affrontare il lavoro. Il punto quindi è investire il proprio talento. Il dramma di quello che è stato cacciato è che non aveva investito, non che aveva avuto poco. E’ qui che si capisce la parola ideale, come è connessa, perché non esiste solo riconoscere il talento che ti è stato dato, ma chiedersi per chi e per che cosa investi quello che ti è stato dato. Perché questo talento lo devi restituire. La parola ideale delinea questa dinamica.
Se non c’è questo orizzonte il talento diventa un ansia prestazionale, uno stress da performance, una logica solipsistica. Il lavoro diventa un meccanismo che ti domina, in cui la legge è qualcuno che spreme i tuoi talenti. Mentre l’ideale è scoprire sé e investirlo, scoprire un angolo e andarci dentro con qualcuno più grande di te.
E’ questo che conta quando si sceglie il lavoro che desidero fare, l’azienda dove vorrei andare. Ci sono persone che cambiano azienda, che scelgono un certo tipo di lavoro, un certo tipo di compagni con cui affrontare il futuro. L’ideale non è un sogno, è qualcosa che si vede, come dice l’etimologia greca che significa vedere.
Per questo nei Camplus sono due le cose che abbiamo a cuore: a) che ciascuno si renda conto del proprio talento; b) che ciascuno si domandi quale ideale ha, quale ideale incarna i propri desideri più veri e su questo non mollare mai, perché in ciò sta il motore che muove il talento. Se no, avere un talento diventerà frustrante.
Un esempio, se vogliamo periferico. Un nostro ragazzo di Catania che ha fatto economia, finito il percorso accademico era indeciso sulla professione da intraprendere. Il padre è commercialista e la famiglia naturalmente aveva un’idea ben precisa di che cosa dovesse fare il figlio. Ma a lui non piaceva fare il commercialista. Parlando col direttore, si è sentito dire: “devi capire il tuo desiderio, cosa ti interessa e poi cosa ti serve per il mercato del lavoro”. E’ partito per Londra per approfondire la lingua in un tirocinio formativo. Qui si è ricordato dell’incontro con un imprenditore agricolo, della sua passione, che lo aveva colpito in un incontro in Camplus. L’imprenditore lavorava per commercializzare prodotti tipici siciliani nella rete italiana. Il nostro ex studente si è reso conto della domanda che c’era in Inghilterra di prodotti italiani. A questo punto ha riparlato con il direttore, che gli ha suggerito di approfondire questa strada. Il giovane si è allora studiato tutte le regole inglesi per la certificazione nell’importazione di prodotti tipici. E’ tornato in Italia, ha incontrato il suo professore universitario di economia internazionale che gli ha proposto un Master, e poi l’imprenditore. Oggi ha fatto un’impresa con amici suoi e non ha fatto il commercialista.
Vi sono tre condizioni per la scoperta del talento. Primo, occorre un adulto: uno per scoprire un talento ha bisogno di uno più grande, infatti noi mettiamo un direttore. La seconda, una community, una provocazione continua, che ti introduca in un rapporto reale e che esca fuori dalla virtualità della chat, dello smartphone. Terzo è il confronto con il mondo accademico e professionale, un confronto reale con ciò che si studia e con chi lavora già. E allora il periodo universitario esce da quel luogo anonimo in cui spesso è rinchiuso, e dove a volte prevale la procedura, e diventa invece luogo di incontro, dove si approfondisce lo studio e dove si incontrano esperienze. Dove è l’incontro che domina, dove uno può scoprire il proprio accento. Uno si crea attraverso un confronto.
E’ così che la questione ideale si concretizza, non rimane né fissa né astratta: si concretizza quando incontri un docente che ama la sua materia, il modo con cui ricerca ti appassiona ti entusiasma, o quando incontri un imprenditore o un poeta o un letterato o un manager. Diventa un modello che concretizza quell’ideale che ti fa veder quello che desideri per te. Perché uno difficilmente realizza da se stesso un’immagine al proprio desiderio, è invece aiutato dal vedere come fa un altro; nel modo con cui questo altro parla di sé, del suo lavoro. Quando uno vede, tocca, ha la corrispondenza della realizzazione di sé, questo è l’attivazione dell’ideale e si muove, segue. Questo permette di capire perché e per che cosa.
“Le capacità che sono in noi non si sono fatte da sé, ma anche non si traducono in atto da sole. Sono come una macchina che, oltre ad essere stata costruita da altri, ha bisogno anche di un altro che la metta in marcia, che la faccia funzionare. Ogni capacità umana, in una parola, deve essere provocata, sollecitata per mettersi in azione” (don Luigi Giussani).
Per questo occorre un luogo di relazione, perché il talento diventi una chance e non un peso.