Ero al Meeting di Rimini quando ha parlato il ministro Giannini: moltissimi insegnanti, tantissimi studenti e genitori si erano dati appuntamento lì per ascoltare le novità della scuola italiana, novità peraltro annunciate con squilli di tromba dal presidente del Consiglio.

Al termine della relazione non mi sentivo di condividere quella specie di entusiasmo che serpeggiava tra i molti che sciamavano fuori dall’aula, come se fossero stati presentati chissà quali argomenti o soluzioni: l’idea di un organico funzionale che dovrebbe eliminare la categoria dei supplenti mi è sembrata da subito una delle tante fiabe raccontate al Meeting nel corso del tempo da parte dei diversi politici che si sono succeduti sulla poltrona di ministro dell’Istruzione, o come si è chiamato a seconda degli schieramenti. E da come poi si sono svolti i fatti, questa impressione è stata certamente confermata: le slides del premier non comprendevano quelle sulla scuola, no; non perché non fossero pronte, ma perché la riforma era stata stralciata dai provvedimenti del Governo per un’ulteriore verifica e approfondimento. Che vuol dire, anche per questi nuovi comunicatori della politica, che non erano ancora stati messi a punto i compromessi necessari a far partire uno straccio di riforma tanto annunciata quanto misteriosamente sparita.



A metà settimana, poi, si è parlato di consultazione popolare per una riforma che non vuole essere calata dall’alto e che, di nuovo, ha come fiore all’occhiello la sparizione dei supplenti. Non voglio sembrare cinico, ma chi è andato al Meeting nei precedenti appuntamenti sa che è quasi sempre così e non si aspetta niente di diverso, anzi, in qualche caso, anche in questo, ci siamo augurati che questo giochino delle promesse non mantenute si ripetesse, così che almeno non venisse ulteriormente rovinata questa scuola che sembra un campo buono solo per qualche battaglia a suon di slogan più o meno riusciti. Con alcuni amici insegnanti commentavamo che è davvero triste augurarsi che non accada nulla, che non parta nessuna riforma, perché pare che qualsiasi cosa pensino o facciano, le cose peggiorano. Non è dalla politica, ancora una volta, e sempre, che ci si possono attendere risposte.



Ma poiché c’è da ricominciare, poiché comunque si ricomincia, da dove si può ricominciare?

Ma scusa, si deve ricominciare, mi ha detto un collega. E sembra che l’accento di ogni discorso di questi primi giorni di riunioni a scuola sia posto proprio su quel si deve, come se ricominciare fosse addirittura una forma di condanna a cui non si può sfuggire; come se dovessimo di nuovo tendere i muscoli per affrontare daccapo una salita, una fatica senza ragione. Ma è davvero così? Basta davvero uno sforzo di volontà, un impegno caparbio, questo rimettersi sulla strada a testa bassa per ripartire?



Mi è venuto da pensare al libro di McCarthy, così elementare nella sua trama: c’è un padre che vuole salvare un figlio. Percorrono insieme una strada che di sicuro ha soltanto che porta verso sud, verso il mare, forse verso l’oceano. Il mondo e il tempo sono già l’apocalisse; gli uomini, anche loro, forse non esistono più. Esistono dei cattivi, che il padre e il figlio devono evitare, che qualche volta incontrano, da cui devono difendersi. Perché loro sono i buoni, perché il figlio porta il fuoco, la luce. La trama di questo libro potrebbe essere tutta qui, perché non c’è trama, non il prima, non il dopo. Solo l’istante bruciato della terra, le nuvole e il fumo che coprono il sole, l’istante ripetuto ad ogni pagina di un incubo dentro cui siamo anche noi buttati, trascinati come il carrello del supermercato che è tutto il tesoro che i due hanno, che si portano dietro, che difendono a tutti i costi. Senza mai scordarsi che loro sono i buoni.

La storia di questo padre e di questo figlio ci consegna, come fa ogni grande libro, una sorta di dono, più o meno nascosto;  ce lo consegna come un’eredità, come un compito, come qualcosa che va al di là della letteratura, che rimette in  movimento il lettore. Il cuore nascosto del libro di McCarthy, il suo centro pulsante è la domanda acuta, carnale, tragicamente necessaria sul nostro destino: il cuore del libro è l’affermazione della vita e del mistero, di un positivo che emerge e si fa strada dentro questo scenario di devastazione totale. Il padre vive, fatica, lotta con i denti e con le unghie, con una moralità dignitosa, per qualcosa che riconosce come valore, per la vita che ha tra le mani. Per un figlio. Non idee, ma qualcosa che accade ora: si vive per questo, per affermare qualcosa di bello, positivo e buono. Anche dentro la merda dell’uomo e del mondo alla sua fine:

Ce la caveremo, vero, papà?
Sì. Ce la caveremo.
E non ci succederà niente di male.
Esatto.
Perché noi portiamo il fuoco.
Sì, perché noi portiamo il fuoco.

Ecco − mi verrebbe da dire al collega che mi dice che si deve ripartire: per meno di questo non ha davvero senso ricominciare. Per meno di quel fuoco che il padre, nel libro, dice di vedere non varrebbe la pena rimettersi in strada. Bisogna avere qualcosa a cui guardare per ripartire, qualcosa da affermare nella sua assoluta necessità, per ricominciare.

È come per il padre del libro: è  la coscienza di una bellezza che ci è stata affidata che rende ragionevole la vita e il lavoro. Il padre, questo padre qui, quello che sta sulla strada, ha una certezza: è la sua vita intera ad essere consacrata a uno scopo, concretissimo. “Tutte le cose piene di grazia e bellezza che ci portiamo nel cuore hanno un’origine comune nel dolore. Nascono dal cordoglio e dalle ceneri. Ecco, sussurrò al bambino addormentato. Io ho te”.

Non ci resta che chiedere che questo sguardo su ciò che c’è, sulla vita che ci viene affidata possa accadere per noi in questo anno che inizia. Questa coscienza ci farà capaci anche del resto, ci farà capaci di affrontare la realtà con più passione, con più carità, con più intelligenza delle cose. Ciascuno di noi − precario che abita nella prima, seconda, terza fascia o docente di ruolo con stipendio probabilmente bloccato − possa ritrovare quel fuoco per ricominciare; possa riscoprire come sia chiamato, nella sua debolezza di uomo, a fare in modo che il fuoco cresca nel mondo grazie al fuoco piccolo − che egli sarà in grado di accogliere e custodire − dei piccoli, fragili uomini che gli verranno affidati.