PARIGI — Insegno in una scuola pubblica molto vicino a Parigi, una scuola media della banlieue come ce ne sono tante. La popolazione è ben assortita: le differenti origini sociali, etniche e religiose vi sono tutte rappresentate. In apparenza, l’esempio perfetto della mescolanza e della laicità “alla francese”.

In questi giorni la tensione è palpabile. La paura, innanzitutto. Non siamo che a qualche stazione di metro dai luoghi dei due drammi; la scuola è contigua a un luogo strategico molto sorvegliato, dove, secondo alcune voci, uno dei tre terroristi in fuga sarebbe stato visto giovedì; venerdì, un allievo è scoppiato a piangere in piena lezione: suo padre si è trovato esattamente sul luogo (a Montrouge, ndr) dove la poliziotta è stata uccisa giovedì mattina e ha dovuto trovare riparo sotto un’auto, in attesa che finisse la sparatoria. I rumori comuni (sirene dei pompieri, urla giù in strada, petardi…) di cui, in una metropoli così effervescente come Parigi, normalmente non ci si accorge, ora fanno drizzare le orecchie. Immediatamente, il pensiero corre ai popoli di altri paesi, ai fratelli in Iraq, Siria, Nigeria, Pakistan… dove questi fatti sono quotidiani: come vivono laggiù? Come sopportano questa tensione, che rende tutti i nostri sensi tanto più acuti e sensibili?

Ma non c’è solo la paura: entrando in classe, mi sento trafiggere dallo sguardo interrogativo degli allievi. Aspettano. Naturalmente, come tutti, hanno bisogno di liberarsi della loro emozione parlando. Hanno gli occhi pieni di quei video terribili che girano su internet, vere scene di guerra che hanno guardato e riguardato continuamente. Ma attendono, ancor più, una spiegazione, un senso. Come spiegare l’innominabile a degli adolescenti di 11-16 anni? Quali parole possono render conto del mistero del male, della violenza cieca e assurda? E come parlarne senza infrangere le regole della sacrosanta laicità?

L’indomani dell’attentato allo Charlie Hebdo, tutti gli insegnanti di Francia hanno ricevuto un messaggio dal loro ministro, Najat Vallaud-Belkacem, che insiste a giusto titolo sul ruolo essenziale della scuola per combattere la barbarie: è nostro compito «trasmettere i valori fondamentali di libertà, uguaglianza, fraternità e laicità. La scuola della Repubblica trasmette agli allievi una cultura comune di reciproca tolleranza e rispetto».

Il fatto è questa “cultura comune” non è così evidente come vogliamo far credere a noi stessi. Diversi nostri studenti non condividono affatto la nostra costernazione di fronte a quanto accaduto. C’è stato bisogno di tutta la nostra autorità per ottenere — da tutti — il rispetto del minuto di silenzio nazionale, e certi giovani non hanno nascosto la loro disapprovazione. Una fotografia di uno dei terroristi è stata trovata sotto il banco di uno studente. Noi possiamo fingere consenso, ma è un fatto oggettivo che una parte non trascurabile del nostro popolo pensa che questi giornalisti abbiano meritato la loro sorte, e perfino che i fratelli Kouachi siano morti da eroi.

Possiamo gridare allo scandalo, come hanno fatto certi colleghi, ma in nome di che cosa? Su cosa si fondano questi sacri valori della Repubblica? Chi mi libera dalla paura, e che cosa rispondere allo studente ebreo che mi grida la sua angoscia e il suo desiderio di fuggire lontano da qui? E ancora, come negare che il germe di questa violenza verso l’altro, il diverso, è dentro di me?

Certo, bisogna denunciare l’inammissibile, difendere la libertà di espressione come uno dei valori fondamentali del nostro paese, inculcare il rispetto e la tolleranza al pari delle regole indispensabili del vivere insieme. Ma davanti ai miei studenti, dico che non voglio lasciar passare questa occasione per andare più lontano, per cercare senza sosta, nella mia vita, il punto di ancoraggio, di sicurezza, di pace che trasforma questi valori codificati in leggi morali, in dono, in evidenza che nasce dal cuore. 

Racconto loro che ho visto, nella mia vita, intorno a me, la spirale della violenza sconfitta da un’altra logica, impossibile ma reale, quella del perdono. Auguro loro di non rinunciare mai al desiderio di essere felici, di cercare la loro verità, anche in un mondo che si annuncia forse più ostile e violento. Ciò che è in gioco e anche e soprattutto una crisi educativa: non basta denunciare, occorre anche indicare un cammino.