Da mesi si discute, in Parlamento e nelle sedi del dibattito culturale, se equiparare o meno i dirigenti scolastici ai dirigenti statali tout court. 

Da un lato vi sono coloro che richiedono tale equiparazione con la motivazione che al ds vadano conferiti tutti gli strumenti “autoritativi” che competono ai dirigenti, allo scopo di organizzare più efficacemente il lavoro; dall’altro lato vi sono coloro che, invece, ritengono che tale equiparazione snaturerebbe completamente il ruolo “educativo” del ds, e potrebbe addirittura comprimere quella libertà di insegnamento dei docenti garantita a livello costituzionale. 



Si tratta di due posizioni assai nette rispetto alle quali la politica sembra si stia arenando, anche in considerazione del fatto che la posizione ostile all’equiparazione è sostenuta dalle forze sindacali e, in particolare, dal maggiore tra i sindacati della scuola. Il che rende soprattutto il partito governativo assai cauto nell’intraprendere tale strada. 



Cercherò in questa riflessione di prescindere da tale contesto, non per ingenuità ma al contrario perché sono convinta che questo Paese non può più essere ostaggio dei veto players, quelle posizioni che sono sempre contro “a prescindere”, per soli motivi ideologici.

Anzitutto occorre rintracciare il “bandolo” della matassa e cioè la ratio normativa della dirigenza scolastica. Come noto questa viene introdotta contestualmente all’autonomia scolastica. Prima dell’autonomia il “preside” null’altro era che un docente, anche se “primus inter pares”, ma, comunque, sempre e solo un docente con poteri di coordinamento “persuasivo” rispetto agli altri docenti. 



Quando la legge Bassanini introduce l’autonomia scolastica, contestualmente e razionalmente introduce anche la dirigenza scolastica, quale strumento indispensabile per l’attuazione dell’autonomia. Ed infatti il comma 16 art. 21 della L. n. 59 del 1997 prevede che “nel rispetto del principio della libertà d’insegnamento e in connessione con l’individuazione di nuove figure professionali del personale docente, ferma restando l’unicità della funzione, ai capi d’istituto è conferita la qualifica dirigenziale contestualmente all’acquisto della personalità giuridica e dell’autonomia da parte delle singole istituzioni scolastiche“.

Il sillogismo introdotto dalla norma è concettualmente ineccepibile: autonomia scolastica = personalità giuridica = dirigenza. In altri termini: quando un soggetto diventa autonomo noi giuristi diciamo che vi deve essere “un capo di imputazione giuridica”, una persona fisica, cioè, che risponde giuridicamente per quella autonomia. 

Ecco perché l’autonomia richiede la dirigenza: non un qualunque docente a capo della scuola, bensì una figura che ha tra le sue caratteristiche principali quella di assumersi la responsabilità complessiva dell’istituzione. 

Perciò il D.Lgs n. 59 del 1998, attuando la legge Bassanini, ha disciplinato il contenuto della funzionespettante al dirigente scolastico, disponendo che esso assicura la gestione unitaria dell’istituzione scolastica, ne ha la legale rappresentanza, è responsabile della gestione delle risorse finanziarie e strumentali e dei risultati del servizio. 

È ben evidente la differenza rispetto al preside come disciplinato dalla precedente normativa, cioè dall’art. 396 del D.Lgs n. 297 del 1994 secondo cui “Il personale direttivo assolve alla funzione di promozione e di coordinamento delle attività di circolo o di istituto; a tal fine presiede alla gestione unitaria di dette istituzioni, assicura l’esecuzione delle deliberazioni degli organi collegiali ed esercita le specifiche funzioni di ordine amministrativo“.

Il ds delle legge Bassanini, invece, alle competenze di coordinamento didattico aggiunge una differente connotazione organizzativa connessa all’autonomia delle istituzioni scolastiche. Di lì a qualche anno il Consiglio di Stato, chiamato nella sua funzione consultiva, confermò che il ds doveva considerarsi un dirigente a tutti gli effetti con questa motivazione: “La collocazione dei dirigenti delle istituzioni scolastiche nell’ambito della dirigenza statale trova, poi, riscontro nell’art. 1 comma 2, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, che precisa: “Per le amministrazioni pubbliche si intendono tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado …” nonché nell’art. 13 dello stesso decreto legislativo, che, a sua volta, prescrive: “Le disposizioni del presente capo [riguardante la dirigenza] si applicano alle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo” (parere 3994 del 16 ottobre 2003).

Il parere del Consiglio di Stato è illuminante e stabilisce le seguenti (e logiche) equazioni: istituzioni scolastiche autonome = amministrazioni dello Stato; dirigenti scolastici = vertici delle istituzioni scolastiche autonome; dirigenti scolastici = dirigenti dell’amministrazione statale.

Insomma, fuori e al di là delle ideologie e per il bene stesso della scuola, occorre affermate con lucidità e con chiarezza che:

1. le competenze attribuite al dirigente scolastico corrispondono a quelle previste come proprie della funzione dirigenziale, disciplinate in generale dall’art. 17 del D.Lgs n. 165, con gli adattamenti dovuti alla specificità del settore; 

2. tali poteri modificano il ruolo voluto per i capi d’istituto dall’art. 396 del D.Lgs n. 297;

3. ciò non pone problemi peculiari nei confronti del personale Ata;

4. richiede limiti all’esercizio del potere con riguardo al personale docente (art. 33 Cost.).

Certo il ds è un dirigente statale “peculiare” come è peculiare la scuola rispetto ad altre amministrazioni dello Stato, ma ciò non può considerarsi un ostacolo al riconoscimento della figura dirigenziale, in quanto figura di responsabilità organizzativa e gestionale. Semplicemente in considerazione della “doppia anima” delle istituzioni scolastiche, il dirigente scolastico si trova ad operare nella doppia veste di organo dell’amministrazione dello Stato (anello di una catena complessa che lo lega allo Stato) e di organo dell’istituzione scolastica (anello apicale di un ente a sé stante). 

Chi si ostina a non voler riconoscere questa realtà non sta solo combattendo una battaglia sindacale (giusta o sbagliata che sia non è questo il problema) ma si sta rendendo responsabile di frapporre ancora ostacoli all’autonomia della scuola, cercando di riportare indietro le lancette dell’orologio di quasi vent’anni fa, a prima della legge Bassanini.

Ma che sia proprio questo lo scopo? Non voler l’autonomia, perché autonomia è responsabilità? Può darsi. E’ il punto di vista di chi ha solo a cuore il proprio interesse personale (meno responsabilità possibili e se le cose vanno male, pazienza!) e non il bene della scuola e del Paese.