In questi giorni Tuttoscuola ha dato una notizia clamorosa, ma che può stupire solo i non addetti ai lavori: la crescita esponenziale del contenzioso nelle scuole di oltre il 335% nell’ultimo anno, con un trend in continua ascesa, che non lascia sperare nulla di positivo per il prossimo futuro. Del fenomeno si poteva ignorare la dimensione, ma non l’esistenza: semplicemente è stata resa — meritoriamente — di pubblico dominio una verità nascosta, di cui però si potevano avvertire mille segnali. Il fatto in sé è ancor più grave se lo si riconduce alla ben nota propensione alla litigiosità tipica delle tradizioni del nostro paese. Sarebbe ora interessante conoscere il dato comparativo tra caso italiano e principali paesi nostri concorrenti.



Il fenomeno merita un approfondimento rigoroso, sia delle cause che dei possibili interventi per arginarlo, prima che la degenerazione nella regolazione dei conflitti sfoci in una patologia non più controllabile. Per quanto ci riguarda, ci limitiamo a indicare alcune delle possibili cause, in un abbozzo di elenco sicuramente parziale.



In primo luogo non si può sottacere la sfiducia crescente nelle amministrazioni, dalle quali non si è più disponibili ad accettare nessuna decisione. E allora ci si rivolge al giudice, sempre più frequentemente anche a quello europeo. Caso emblematico, e di recente attualità, è quello del personale docente ed Ata che ha chiesto ed ottenuto a Strasburgo quel consolidamento del rapporto di lavoro a termine che le leggi italiane non avevano fino ad oggi consentito.

Altro motivo alla base della crescita del contenzioso è, a giudizio di chi scrive, la soppressione o il congelamento delle sedi di strutturazione del conflitto. Cinque anni di moratoria contrattuale comportano non solo il blocco delle retribuzioni, con il conseguente danno economico per i pubblici dipendenti: provocano anche l’impossibilità di perseguire obiettivi di miglioramento di sistema attraverso l’introduzione di istituti di premialità conseguenti alla valutazione delle performance professionali o il perseguimento di obiettivi di equità, quali quello della perequazione retributiva tra i dirigenti delle pubbliche amministrazioni. Altrettanto dicasi della caduta delle relazioni sindacali, ridotte ai minimi termini. In un contesto di tal fatta, altro non resta se non il ricorso al giudice.



Un’ulteriore spinta viene dalla produzione normativa: sempre più abbondante, sempre più ispirata dalle emergenze contingenti (non si fanno più leggi ordinarie, si convertono solo, in affanno, decreti-legge) e quindi fonte essa stessa di ambiguità interpretative, sovrapposizioni ed incoerenze.

Ricercare le cause è sicuramente necessario, ma non sufficiente: il problema non è di natura accademica, ma politica e civile: investe in primo luogo chi ha la responsabilità di Governo e quindi quella di garantire i rapporti fra i cittadini e le istituzioni in un clima meno conflittuale ed avvelenato dell’attuale.

Le riforme sono necessarie, in primo luogo per normalizzare il funzionamento delle amministrazioni e riportarle all’altezza del loro compito; ma insieme occorre recuperare il senso dello Stato come bene comune e la consuetudine dello scrivere le leggi con il tempo e la ponderazione necessari. Solo così si potrà sperare di interrompere l’attuale spirale che alimenta sempre nuovo contenzioso.