BOLOGNA — Dopo i fatti che sono accaduti la settimana scorsa a Parigi non si può rientrare in classe come se nulla fosse: nel web o davanti alla televisione i ragazzi hanno comunque intuito che qualcosa di grave deve essere successo e prima o poi chiedono spiegazioni. Penso sia inevitabile, basta creare la situazione adeguata nella quale sentirsi liberi, senza il ricatto di dire la cosa giusta.



A questo proposito vorrei condividere un breve dialogo che il giorno seguente ai fatti di Parigi ho avuto con due classi di liceo scientifico; l’onestà intellettuale delle domande che sono emerse mi ha imposto una chiarezza di posizione che nel proliferare di giudizi a cui siamo costretti ad assistere sto giudicando personalmente preziosa. Uno studente capisce al volo se ciò che stai dicendo ha solo un significato di circostanza e di fronte alla sincerità di chi chiede una soluzione alle sue domande, s’impone l’onestà di rispondere. 



Il dialogo è ricostruito sulla base di quanto mi sono appuntato al termine della giornata. Alcuni passaggi sono stati sintetizzati, ma senza tradire il tono con cui gli studenti si sono espressi. Anche i miei interventi sono stati ripresi tagliando alcune digressioni inutili in questa sede.

Ore 10, classe quinta. Prendono la parola tre o quattro studenti in un intreccio complesso di interventi.

Professore, vorremmo parlare di quello che è successo a Parigi. Non è per perdere tempo, davvero! Il fatto è che non ci capiamo molto, sì insomma, non intendo i fatti, quelli sono chiari, ma perché? Non riusciamo a comprendere le ragioni di un fatto come questo: un fatto di terrorismo, ma… sono ragazzi francesi, cresciuti a Parigi… che ragioni avevano? Ciò fa un po’ paura… ma è davvero così l’islam in fondo? Come si fa a tollerare?



— Ma cosa significa “tollerare”? vorrei provocarvi: è davvero un valore la tolleranza? Dal 1850 la Francia ha tollerato i flussi migratori dal Nord-Africa, ha tollerato negli anni 70 Khomeini che poi ha fondato lo stato islamico d’Iran… — li interrompo io.

— Giusto… cosa fare però? — risponde un ragazzo della classe.

— Forse — li incalzo — questi terroristi hanno vissuto all’interno di un modo di vivere la tolleranza che non è stato utile per nessuno… forse per molto tempo si è fatto confusione tra tolleranza e sopportazione. Cosa vuol dire? Vuol dire che in una società dove l’ultimo valore in grado di sostenere una convivenza è quello di sopportarsi vicendevolmente, quella società è destinata a non crescere. Non solo: quando poi al suo interno si creano le condizioni per il germogliare di pensieri mostruosi come il fondamentalismo, non ce se ne accorge e non si è più in grado di sradicarlo.

— …ma cosa c’entra questo con i fatti di Parigi, prof? — si obietta dai banchi.

— C’entra, e soprattutto dovrebbe c’entrare con la posizione che dovreste assumere voi di fronte a un mondo che, dopo i fatti di ieri, è destinato a cambiare.

A questo punto uno tra coloro che avevano iniziato la discussione prende la parola.

— Io vorrei studiare o la filosofia o la letteratura, dalle sue parole capisco che queste mie passioni possono c’entrare con quello che sta succedendo, ma non capisco bene come.

Provo a rispondere.

— È un problema di educazione. Se la tolleranza non nasce dal desiderio libero di conoscersi reciprocamente ognuno rimarrà chiuso nell’angusto spazio delle sue idee. Bisogna avere il coraggio di dire “bello” quando si vive qualcosa di bello e di dire “brutto” quando ci si accorge che qualcuno sbaglia. Affidando poi questo appello alla libertà di chi ci ascolta, ma senza l’ipocrisia di chi non ha il coraggio di condividere la realtà che sta vivendo. I due terroristi sono cresciuti da soli. Hai mai visto una banlieue di Parigi? Non sono periferie, ma sono ghetti… Se studierai la filosofia o la letteratura avrai la fortuna di condividere con chi poi ti ascolterà millenni di ricerca del vero, del bello e del giusto. Fare l’insegnante è la più bella e corrispondente lotta al terrorismo che tu puoi fare.

Ore 13, classe terza. Prende la parola uno tra gli studenti più vivaci della classe.

— Prof, lo so che forse non c’entra molto con Platone, ma potremmo parlare di quello che è successo ieri a Parigi?

— In realtà quando ho saputo di un attentato a un giornale satirico mi è venuto in mente Socrate, in particolare l’ironia: per Socrate era uno strumento per ricercare il vero… per questi terroristi l’ironia era una bestemmia… — osserva una seconda compagna.

— e per voi? — chiedo io.

— Ovvio: ha ragione Socrate!

— Allora perché questo giusto giudizio non è stato riconosciuto dai terroristi?

Segue un attimo di silenzio.

— Secondo me i terroristi avevano paura — li incalzo.

— Paura? e di cosa? questi qua sono disposti addirittura a morire…

— Paura — rispondo — di mettere in discussione qualche presunta verità malata che un qualche predicatore fanatico ha ficcato dentro a quelle menti semplici. La paura di ricercare sul serio la verità. Guardate che è per questo desiderio che è nata la filosofia e, non dimenticatelo, è da questo desiderio che viene quel mondo che ora vediamo sotto attacco. Volete il miglior antidoto al terrorismo? Studiate…

C’è una parola che riecheggia ripensando a questo dialogo: paura. I terroristi sono riusciti a seminare il germe dell’angoscia nel cuore di una generazione per la quale anche la bomba alla stazione di Bologna rappresenta un passato remoto, un fatto da studiare. 

Tuttavia, al di la delle parole, si intravede una domanda di senso rispetto a gesti che un senso sembrano non avere. “Forse non c’entra molto con Platone, ma vorrei parlare di quello che è successo ieri a Parigi“, mi hanno chiesto in terza: è in fondo questa l’essenza ultima della scuola, quella di essere un luogo nel quale affermare una esigenza di verità. 

Ma la scuola può essere anche il luogo nel quale cercare gli strumenti per superare la paura e provare a giudicare: “…mi ha fatto venire in mente Socrate, in particolare l’ironia»”, ha commentato una studentessa; in questa frase c’è la consapevolezza di ciò che in questi giorni pare essere in gioco ovvero una tradizione nella quale riconoscersi. Tutto il lavoro che ora mi trovo davanti è accompagnare questa coscienza. Da un dialogo tra i banchi, da una presa di coscienza di ciò che si incontra nello spazio di una lezione, la speranza può ancora prevalere sulla paura. 

Scriveva nel 1949 Maria Zambrano: “Niente di nuovo appare nelle epoche di crisi, niente che nelle epoche di pienezza non sia già stato presente. Ma è soltanto la crisi che, formulando in tutta la sua gravità il conflitto umano, manifesta l’evidenza del fondo ultimo della condizione umana. È il momento più propizio per la conoscenza di sé di cui gli esseri umani hanno bisogno e che perseguono, perché alla creatura umana non riesce naturale mostrare la propria intimità”.