Maria Grazia Discoli è docente di italiano e latino nel Liceo scientifico “Leonardo da Vinci” di Milano. A lei abbiamo rivolto, nell’ambito della campagna Openday Insieme promossa da CdO Opere Educative, alcune domande sulla scelta della scuola e sul rapporto fra scuola e famiglia.

Professoressa, quanto è importante scegliere la scuola adeguata alle proprie esigenze educative e a quelle dei nostri figli?
E’ importantissimo, perché il tessuto socio-culturale non è assolutamente omogeneo, le evidenze non sono più tali, neanche le più elementari, e dunque è veramente molto rischioso affidarsi ad istituti educativi che presumiamo neutri.



Ma come si fa a individuare la scuola giusta?
Non è possibile parlare di una scuola giusta in senso rigido, ma di una scuola con cui l’adulto senta di poter dialogare con un ragionevole margine di fiducia, in vista dell’educazione dei propri figli, questo sì. E’ pensabile, cioè, che esistano luoghi educativi non perfetti, ma che in un’alleanza leale con la famiglia si impegnano a crescere degli uomini aperti alla realtà e consapevoli di sé.



Allora è necessario individuare anche gli insegnanti “giusti”… Non rischia di essere avvertita questa come una scelta ideologica?
Scegliere uno o, se possibile, più maestri per i figli, non è una scelta ideologica. Penso che non lo sia né per chi sceglie una scuola paritaria, né per chi sceglie una scuola statale. Tentare di identificare tali maestri, che si rivelano poi nel tempo, presumibilmente, i più importanti collaboratori per l’educazione, significa individuare quegli insegnanti che, attraverso la loro disciplina, comunicano un’esperienza sempre viva di conoscenza, non un sapere acquisito una volta per tutte, ma un’implicazione continua con il proprio materiale di studio, in un colloquio in cui si intravede l’esperienza personale. Insegnanti per cui quello che comunicano è un tutt’uno con quello che vivono. Questo fenomeno è più importante, ha più peso dal punto di vista della formazione, di ogni dichiarazione ideologica.



Però esiste — in Italia particolarmente — una deriva egualitaristica che rende difficile muoversi in questo campo, non trova?
In questo senso, infatti, la scuola non deve barare, deve cioè riconoscere che sono questi gli insegnanti che fanno la differenza (molto più che tecnologie e tecniche varie). Alla famiglia, da parte sua, è chiesta l’onestà della richiesta: l’insegnante non è un genitore, non è la cassa di risonanza della famiglia. E’ un adulto “altro” con il quale il figlio deve essere aiutato a confrontarsi, a interloquire in un rapporto di stima. All’insegnante compete il difficile percorso della conquista della stima del più giovane, ma se, per ragioni varie, la famiglia revocherà la stima all’insegnante, difficilmente il dialogo educativo potrà essere proficuo.

Se questo è l’aspetto più importante, gli Open Day e le altre iniziative più recenti di valutazione della scuola sono strumenti adeguati per aiutare le famiglie nella scelta? 

Benché gli Open Day siano spesso una vetrina, tuttavia possono non essere del tutto inutili, soprattutto se esiste un criterio di giudizio chiaro. Per esempio in tali occasioni si possono vedere i professori, li si può ascoltare nell’illustrazione della scuola, si può conoscere il dirigente, si possono osservare gli studenti, come raccontano la loro scuola, la stima che ne nutrono, l’interesse che certe discipline hanno suscitato. Il tutto deve essere certamente vagliato, ma tale circostanza può costituire almeno un suggerimento circa il clima della scuola. Certo, quello che può essere più interessante e utile è l’esperienza di quelli che vivono in quella scuola e del cui giudizio ci fidiamo, siano professori, studenti o genitori.

Ultimamente iniziano a circolare anche classifiche delle scuole stilate da importanti enti di ricerca. Possono essere di aiuto o rischiano di orientare arbitrariamente i criteri di scelta?
Le ultime valutazioni da parte di enti e fondazioni sembrerebbero voler aiutare le famiglie e i ragazzi ad orientare le proprie scelte. Occorre dire, però, che la moltiplicazione di informazioni, anche in questo campo, non è detto che aiuti veramente al raggiungimento dello scopo. Il punto debole, infatti,  mi pare che sia all’interno del nostro sistema culturale, che si riverbera poi nelle famiglie.

Cioè?
Spesso non è chiaro che cosa veramente gli adulti riconoscano come bene irrinunciabile per i propri figli; si oscilla tra la richiesta dei saperi più immediatamente spendibili sul mercato, alla richiesta di scuole ancorate alle discipline più tradizionali e per ciò stesso più formative, all’idea che quanto più una scuola è severa tanto più è seria, e via dicendo.

Invece?
Lo scopo di una scuola, invece, è strettamente connesso all’individuazione chiara del rapporto che esiste tra istruzione e formazione. A mio avviso la domanda che un genitore può porre alla scuola per capire veramente chi ha davanti e se può essere un collaboratore autorevole è: qual è la proposta culturale della scuola? Chi vuole formare? Quali ritiene essere i suoi punti di forza? Il dialogo con la famiglia che valore ha?

Insomma, pare che buona parte del problema sia “nel manico”, cioè nel quadro di riferimento valoriale della famiglia… Cosa sarebbe opportuno avere a cuore per operare una scelta davvero ragionevole?
Un genitore dovrebbe avere a cuore che il proprio figlio diventi sempre più se stesso, che si realizzi, che dica “io” con una certezza umile e forte, che si senta autorizzato ad andare per il mondo per quello che è, desiderando di imparare sempre. 

D’accordo, ma cosa può aiutare i genitori ad avere una simile apertura? 

In questo senso i genitori devono guardare attentamente e insistentemente i propri figli e devono poter chiedere ad altri adulti (per esempio gli insegnanti stessi delle scuole medie, o altri di cui si fidino) di completare e correggere il loro sguardo, perché i figli, da una certa età in poi, si rivelano molto più ad altri che non ai genitori. Per questo la presenza di una rete di collaboratori è decisiva.

Non è un passaggio facile. Non le pare che tante famiglie, soprattutto oggi, si concepiscano sole.
Infatti, provando a rispondere alle sue domande, ho sempre presupposto come indispensabile una condizione: che la famiglia non sia sola, che in qualche modo cioè, viva dei rapporti fiduciari in cui è a tema il bene più caro che una famiglia ha: i figli. Mi pare che in questo senso si apra una questione focale: la famiglia è il soggetto che educa, ma non può farlo isolatamente. Paradossalmente, quanto più si avverte la responsabilità del compito educativo, tanto più si fa strada l’esigenza di relazioni adulte a vocazione educativa. 

Questo non vale anche per le scuole?
Sì, se una scuola vuole veramente educare, non può non sentire la stessa esigenza, la natura di corresponsabilità che le è propria. Quanto più una famiglia e una scuola sentono veramente il compito educativo come apertura alla realtà totale, tanto più sentono l’esigenza di aprirsi tra scuole, tra famiglie, tra scuole e famiglie.

Ma perché è così importante questa apertura?
Perché questa apertura dimostra un realismo circa le proprie forze e l’altezza del compito richiesto che è in fondo l’indizio più interessante per chi affronta la sfida dell’iscrizione ad una scuola. Come ha detto il Santo Padre al mondo della scuola italiana, il 10 maggio scorso: “Per educare un figlio ci vuole un intero villaggio”.