Insegnare storia ai tempi dell’Isis e di Boko Haram, ammettiamolo non è semplice. Gli alunni chiedono, l’attualità irrompe da tutte le parti; troppo facile nascondersi dietro la scusa del poco tempo che intercorre tra noi e i recenti drammatici eventi di Parigi o della Nigeria per poterli comprendere. Le domande che si impongono nel presente, infatti, investono anche il passato. È sempre stato così e oggi è ancora più vero: non si tratta solo di trovare il bandolo in quello che è accaduto ieri o l’altro ieri, ma di mettere a fuoco, a ritroso, secoli e secoli di confronto tra oriente e occidente, tra islam e cristianesimo. 



Alla ricerca di che cosa? Di quei fattori che ci permettano almeno di afferrare, alla luce del passato, qualche elemento della nostra contemporaneità. Perché la storia ci sta passando sotto il naso, ma non riusciremo mai a comprenderne neppure un brandello se non andiamo al fondo della sua dura oggettività, interrogandola a partire da ciò che noi siamo e desideriamo e non tanto da ciò che sappiamo. In realtà sappiamo poco, illudendoci che sia sufficiente sovrapporre al presente categorie di stampo sociologico o economico che definiscono, per fare un esempio, la questione del fondamentalismo islamico con i meccanismi della reazione o della resistenza di certe regioni del globo sottosviluppate alla ricchezza dei paesi detentori delle leve del benessere. Appare evidente alla sensibilità umana di chiunque, infatti, che il fondamentalismo non apporta né pace, né prosperità, bensì asservimento di intere popolazioni soggiogate, dove avviene, da una forma di potere non meno oppressiva di quella che si vorrebbe combattere. 



Non ci siamo forse accorti che è un altro il campo sul quale insistono le forze rivali che si contrappongono; la geopolitica o la geoeconomia non bastano. Sono apparse delle vignette che hanno oltraggiato un determinato credo, come sono solite fare con qualunque credo. Forse gli autori hanno esagerato, hanno pensato molte coscienze improntate alla ragionevolezza. Ma la reazione, cioè l’attentato terroristico di Parigi, non ha avuto uno stretto rapporto con la presunta offesa ricevuta, bensì si è esteso ad un più radicale progetto di distruzione della civiltà occidentale, fondata sulla libertà di espressione e sulla democrazia, e si è collegato, veniamo a sapere, con la creazione dello stato islamico, tra Siria e Iraq, a cui guardano e a cui si allacciano altre espressioni dello stesso tenore in alcuni paesi africani. 



È dal 2001, cioè dall’attentato alle torri gemelle di New York, nel quale perirono quasi tremila persone, che tra la rabbia per lo sfregio ad un simbolo delle nostre sicurezze e l’orgoglio di una risposta che è consistita in una estenuante guerra al terrorismo, ci interroghiamo su che cosa sia il fondamentalismo islamico e su quali siano le sue matrici. 

Religione? Ideologia? Follia? La data dell’11 settembre 2001 è un punto di non ritorno, segna una svolta storica, come si suole dire. L’America fu attaccata sul suo stesso terreno e la rivendicazione farneticante di Osama Bin Laden, capo della rete terroristica Al-Qaida, che faceva della nazione stelle e strisce il capro espiatorio di ogni attività di mantenimento dell’ordine mondiale, dalla Palestina alla Cecenia, dal Kashmir all’Iraq, non lasciava spazio ai dubbi: in nome dell’islam era legittimo colpire degli innocenti per punire le colpe dell’occidente. 

Che di colpe ne ha e ne ha avute tante, compreso il peggiore colonialismo, ma che non può essere criminalizzato per la sua democrazia, per le società multietniche, per le sue radici giudaiche e cristiane, per avere cullato il “sogno americano”. Tutti vantaggi, beninteso, che se non sono alimentati dalla responsabilità dei singoli di aderire ad una visione positiva dell’esistenza possono trasformarsi in limiti. E comunque l’abbattimento suicida e omicida delle torri gemelle segnava l’inizio di una fase storica in cui le dinamiche anticoloniali e i risentimenti dei “dannati della terra” c’entravano fino ad un certo punto. Non sempre i libri di testo questo lo hanno capito. Al-Qaida e le sigle connesse lanciavano la jihad, la guerra santa, intesa non tanto come combattimento interiore, quanto come guerra musulmana in nome di Dio per difendere l’islam. Quindi una guerra potenzialmente globale. Una posizione malignamente ambigua, perché tirava in ballo l’appartenenza ad una religione e la piegava al compito della distruzione del nemico. Da qui in tanti cominciarono a pensare, in occidente, che si dovesse procedere ad una separazione ancora più netta, nelle società sviluppate, tra la fede e le sue espressioni storiche, sociali e politiche. L’America reagì al colpo ricevuto con la guerra, e fu così che George W. Bush attaccò prima l’Afghanistan dei talebani, ritenuti responsabili di avere fornito appoggio logistico a Bin Laden e poi, nel 2003, invase l’Iraq (guerra preventiva), accusando il governo di Saddam Hussein di possedere armi di distruzione di massa, mai trovate. Inascoltato, e non a caso, fu l’appello di Giovanni Paolo II, rivolto al presidente statunitense, di non avventurarsi in una guerra dalle conseguenze imprevedibili. 

Tra il 2003 e il 2011, anno che segna la fine della guerra in Iraq, questo paese è stato dilaniato non solo dagli attentati suicidi contro le truppe americane e anche italiane, a Nassiriya, ma anche da una interminabile guerra civile tra islamici sunniti e sciiti. 

Il terrorismo fondamentalista islamico sbarcò in Europa, ricordiamo, con gli attentati alle stazioni di Madrid nel 2004 e alla metropolitana di Londra nel 2005. 

E non era finita. Il radicalismo islamico, perduto l’Afghanistan, cercava un altro stato o altro territorio al quale potersi appoggiare. Ed ecco che conquistano progressivamente spazio sulla cronaca dei giornali, in questi ultimi anni, fino agli ultimi giorni, notizie drammatiche che provengono dalla Nigeria dove l’organizzazione terroristica jihadista Boko Haram (letteralmente “L’educazione occidentale è peccato”) semina morte e distruzione tra la stessa popolazione musulmana. 

Nel frattempo si è costituito lo Stato islamico dell’Iraq e della Grande Siria (Is o Isis) nel cui ambito è stato restaurato il califfato islamico con prospettive di conquista. Dove arriva l’Isis si verificano distruzioni, atrocità, repressione delle fedi diverse. A chi non si converte all’islam e non paga la tassa islamica resta come alternativa la fuga o la prospettiva di essere ucciso. Il califfato islamico, qui la storia ci soccorre, era stato abolito nel 1924 da Kemal Ataturk, il fondatore della Turchia moderna su basi de-islamizzate, che non coincidono certo con una riforma dell’islam ma semmai con i presupposti di una tra le prime reazioni fondamentaliste, l’organizzazione dei Fratelli musulmani.

Si arriva così agli attentati di Parigi dove, anziché chiudersi, la questione del fondamentalismo si riapre. Per un motivo molto evidente: gli attacchi dell’Isis, di Boko Haram e dei terroristi che hanno colpito in Francia prendono di mira occidentali, minoranze non islamizzate, cristiani, ma anche musulmani marchiati come apostati, donne e bambini. Semplicemente uomini. Si combatte, è stato detto da chi vive questi fatti sulla propria pelle, per la supremazia sul fondamentalismo in una spirale interna all’islam che lo snatura e può portare, se il progetto globale si realizzasse, alla sua autodistruzione. Che dire? 

La storia a cui stiamo assistendo, e che più avanti sapremo forse leggere meglio, è dunque quella di motivazioni e spinte ideali che si sono ammalate nel momento in cui hanno voluto tradursi in violenza e, molto di più, in un tentativo di modificare ai nostri occhi la stessa struttura di cui è fatto l’uomo, cercatore di un senso e portatore di una domanda rivolta al Mistero positivo dell’esistenza. L’esigenza di infinito che è nel cuore dell’uomo e che tende naturalmente a Dio non può essere relegata nel regno dell’irrazionalità e sostituita con lo schema, il precetto, il fanatismo religioso. L’occidente secolarizzato che ha visto nel corso del secolo scorso la religione sostituita dalla politica fatica ad ammettere che la domanda religiosa abbia a che fare con la vita. Per questo la sfida radicale posta dal terrorismo islamico che confonde le carte ci riguarda tutti. È certo urgente aspettarsi una riforma dell’islam, come indicato dal presidente egiziano al-Sisi, se bene abbiamo inteso, nel suo discorso di inizio gennaio all’Università Al-Azhar del Cairo, tempio dell’islam sunnita: invertire la rotta e ritrovare l’islam autentico, pena la fine della comunità islamica. È altrettanto urgente però affermare, come tanti cristiani perseguitati stanno facendo, che l’uomo non è padrone della propria esistenza, né di quella altrui, per cui ogni progetto che si sostituisca alla sua libertà è destinato prima o poi a soccombere.