Seconda parte di un articolo dedicato dall’autore alla vita nella scuola dopo la temperie del ’68. La prima parte, SCUOLA/ Piccolo “viaggio” nel dopo-’68: le macerie della guerra civile è uscita il 3 gennaio.

Prima di diventare preside ero insegnante di matematica e facevo parte, con un ruolo di primo piano, del “collettivo” degli insegnanti “di tipo nuovo”. Questo collettivo era denominato “sezione sindacale” sulla base di una doppia finzione: si sentiva esonerato dal formulare (e dal dare) indicazioni generali sulla scuola e sulla didattica; al tempo stesso si occupava di tutto e tutto condizionava, attraverso un approccio alle questioni meramente sindacale.



Una doppiezza tipica di un certo sinistrismo imperante ma perdente. Infatti nella sezione sindacale si parlava solo e sempre “degli altri”. Quando io cominciai a porre la domanda del “cosa vogliamo noi” e l’altra fondamentale “questa scuola sta migliorando o peggiorando?” e l’ultima, decisiva “ma i genitori come vedono la nostra scuola?”, piano piano fui percepito come un corpo estraneo. La  rottura definitiva avvenne quando in una sezione sindacale dedicata alle pensioni baby fui l’unico a schierarmi contro lo scandalo. Tutti gli altri (quasi tutti “altre”) la sostennero perché “diritto acquisito”.



La rottura fu insanabile ed insanata. Poco dopo disdissi la tessera della Cgil. E cominciai a porre a me stesso le  domande che invano avevo cercato di porre nel “collettivo”.

Come si fa a dire se una scuola migliora o peggiora, se è buona o cattiva? Quali sono gli indicatori dello stato di salute di un istituto scolastico? Come confrontare tra loro due realtà scolastiche differenti? Allora non c’erano ancora le entità che ben conosciamo oggi, note attraverso le loro sigle: Pof, Invalsi, Ocse. C’era il culto della “programmazione”, del “curricolo personalizzato dell’alunno”, ma non c’era alcuna distinzione tra i livelli diversi della programmazione e quindi dell’azione: il livello del singolo docente, quello del consiglio di classe e quello di istituto. I corsi di aggiornamento, poi, erano per me totalmente deludenti.  



Allora, ancora docente, inventai il giornaletto annuale di istituto con i dati globali per me significativi: notizie e valutazione dei maestri su tutti gli alunni in ingresso in prima media compresi quelli col sostegno, notizie su tutti i genitori delle classi in ingresso (origine, livello istruzione, professione), ripetenze di tutte le classi, quadro di tutte le visite guidate, quadro di tutti gli infortuni, quadro di tutto il personale della scuola e di tutti i membri del consiglio di istituto. Ho sottolineato il “tutti” perché in quegli anni nessuno ricercava e dava una visione globale e al tempo stesso dettagliata della scuola, forse proprio perché una tale visione (temuta ancora oggi) avrebbe immediatamente sovrastato la parzialità e la faziosità dominante. 

Subito vidi che le persone che potremmo definire di buona volontà apprezzavano il lavoro, semplice e di poche paginette scritte in grande. Invece i capifazione tacevano e poi si volgevano altrove, al fatterello per loro importante. E i genitori? Erano divisi tra le due fazioni fondamentali di allora, quella cattolica e quella “sindacale”.

Cosa pensava della scuola la massa dei genitori? Cosa desiderava, cosa accettava, cosa temeva?Domande che nessuno si faceva per il solito vizio del frazionismo ideologico: chi sta con me è bravo, chi sta contro è retrogrado, succube, condizionato.

Quando divenni preside continuai a pormi queste domande e costituii immediatamente il “comitato genitori”, organo consultivo non obbligatorio formato da tutti i rappresentanti di classe elettivi. Che platea interessante, che varietà, che confusione! Promuovevo io stesso le riunioni, impedendo così il minuetto della lotta destra-sinistra per la nomina del presidente, per l’ordine del giorno, per i comunicati, eccetera.

E così si parlava. Quasi tutti coloro che interpellavo, colleghi e non, mi dicevano di stare attento, che i genitori erano ingestibili, che avrebbero creato problemi agli insegnanti, che sarebbero venuti avanti solo i rompiscatole. Ed in effetti faticai ad impedire che le riunioni fossero riti di lamentela e denuncia contro insegnanti incapaci o assenteisti o supplenti. Ma — dicevo continuamente — non siamo qui per questo, ma per trovare il modo di costruire il secondo binario della scuola, che assieme all’altro (gli insegnanti) consente al treno degli alunni di avanzare. Finché si decise di polarizzare l’attenzione su due elementi, un questionario annuale dato a tutti i genitori ed elaborato dal comitato, e tre conferenze annuali su temi decisi dal comitato genitori. La sintesi avvenne. Avevo rifiutato a priori qualunque cosa che fosse divisiva. Non volevo vincere col 51 per cento. Ed anche i genitori eletti che si lamentavano di non sapere cosa pensavano gli altri furono costretti a confrontarsi coi risultati del questionario annuale e con le tre conferenze annuali.

Ebbene, era affiorato il comune sentire dei genitori. Mi mancava quello degli insegnanti e degli alunni.

L’idea per gli alunni mi venne durante una riunione dei genitori in cui una madre (di professione insegnante) in modo saccente e petulante criticò il metodo dell’insegnante di inglese di suo figlio. Ad un certo punto le chiesi: — suo figlio viene a scuola volentieri? 

 La mamma si fermò e poi, dopo una breve pausa, rispose: — sa che non lo so? non mi sono mai posta questa domanda.

Quella domanda divenne il perno del nuovo questionario annuale degli alunni, somministrato nelle classi ed elaborato dai genitori.

Mi mancava un questionario annuale degli insegnanti. Lo proposi alla mia vicepreside che rispose sospirando. L’avevo convinta ad aiutarmi per guidare la nave “tra Scilla e Cariddi”, cioè l’insegnamento tradizionale ed il tempopienismo, che anche lei non amava. Così fu partorito il terzo questionario che funzionò solo per un anno. 

Poi la mia vice mi consigliò, con gli occhi bassi, di lasciar perdere. Il comune sentire degli insegnanti non voleva affiorare, forse non c’era.

La presenza, evidenziata, dello stato d’animo dei genitori e degli alunni pesava fortemente in tutti gli ambiti di discussione e confronto nella scuola. Il soggettivismo furioso era annientato. Il giornalino annuale intanto si era arricchito con altre rubriche, tra cui una importantissima: la tabella degli alunni con problemi elaborata da ogni consiglio di classe sulla base di una griglia che segnalava i problemi di apprendimento, quelli organizzativi, quelli relazionali. E parzialmente anche le “cure” attivate. E, ultimo fungo spuntato nella notte, la definizione del clima di classe fatta dal consiglio di classe. Importantissima, questa messa a fuoco collettiva del clima. Significativi gli indicatori usati. E, stranamente, in questa definizione le differenze politiche tra gli insegnanti scomparivano. Forse è annidato lì il comune sentire degli insegnanti?

La scuola tendeva ad acquisire una propria personalità, ma proprio questo mi metteva in costante e crescente contrasto col contro-potere sindacale onnipresente.

Purtroppo la realtà non è cambiata: gli strumenti e le risorse a disposizione del preside di buona volontà nella scuola statale sono pochissimi. Dall’alto non viene un sostegno ed un coordinamento concreto e puntuale, ma solo indicazioni e provvedimenti di natura propagandistica e dunque inefficace. Gli unici che dirigono puntualmente “dal basso” e “dai collegi docenti” le scuole — ma limitandosi peraltro a difendere lo status quo — sono i sindacati, tramite i loro attivisti capillarmente diffusi che gestiscono tutt’oggi un vero e proprio contro-potere. Dico contro-potere, ma in realtà è il vero ed unico potere coordinato in modo stringente dal livello di istituto a quello nazionale, che diventa contro-potere solo quando un preside decide di dare alla scuola una fisionomia diversa da quella politicamente corretta. 

Le caratteristiche di questo volto “politicamente corretto” sono state da me analizzate più volte. Sono quelle che fanno fare “bella figura” di fronte alla temutissima carta stampata ed allo stesso tempo non toccano e proteggono la natura sostanzialmente casuale, part time, auto-dislocante, in-governata e in-valutata della funzione docente e direttiva statale. Questo modo di procedere non consente alle scuole e agli insegnanti un’effettiva crescita solidamente ancorata alla realtà umana, giovanile e familiare ed economica del nostro mondo e del nostro tempo. Consente solo un lento ed inarrestabile declino.