Dimmi cosa pensi del lavoro e ti dirò chi sei. A questa massima, la cui verità è di facile intuizione, ne corrisponde una meno intuitiva, ma altrettanto vera, che riguarda il sistema di alternanza scuola-lavoro. Pilastro dell’economia in Germania, rebus ancora tutto da risolvere in Italia. E’ quanto emerge dai dati di una ricerca di Associazione Treellle e Fondazione Rocca dedicata al modello tedesco di formazione e introduzione al lavoro e ai suggerimenti che questo può offrire all’Italia. I dati parlano chiaro e dicono che il nostro paese di strada da fare ne ha ancora molta. Se in Italia gli iscritti all’istruzione superiore sono al 99,6% nell’università a fronte di una percentuale irrisoria di coloro che sono negli Its (0,4%), la differenza della Germania è abissale: il 54,4% dei giovani sono in università e ben il 44,6% nelle Fachhochschulen (università di scienze applicate) e in altre istituzioni professionalizzanti. L’apprendistato? Ad un giovane italiano sono richieste 120 ore in tre anni, ad uno studente tedesco 400 ore l’anno. Per non parlare della retribuzione dei docenti nella scuola secondaria: 63 dollari per ora contrattuale in Italia, 96 dollari in Germania (dato 2010). Rimarremo al palo? Secondo Attilio Oliva, presidente di Treellle, qualcosa si muove, ma è ancora poco.



Oliva, in Italia il sistema duale tedesco viene continuamente indicato come modello. Non è che l’erba del vicino è sempre più verde?
Che nel caso della Germania l’erba sia più verde della nostra è fuori discussione e tutti i dati — di sviluppo economico, di occupazione, di scolarizzazione, di riduzione degli abbandoni scolastici, per dirne solo alcuni — stanno lì a dimostrarlo. Dobbiamo avere il coraggio di misurarci: non per copiare il duale in Italia, cosa impossibile, ma per trarre ispirazione dai valori che lo sottendono.



Valori, dice?
Certo. In Germania, diversamente dall’Italia, il lavoro è visto anche per la sua valenza educativa. E’ parte dell’identità personale, contributo che ogni individuo deve dare alla società. In Italia invece è stato storicamente visto come accidente spiacevole, male con cui convivere, addirittura come fattore di sfruttamento.

Parliamo continuamente di alternanza scuola-lavoro e di apprendistato. Eppure è come se non riuscissimo, in Italia, a trovarne la formula adeguata. Perché?
Il nostro apprendistato è concepito come un vero e proprio contratto di lavoro — per giovani di almeno 18 anni — cui vorremmo attribuire anche una funzione formativa. La differenza è che in Germania l’apprendistato inizia a 15 anni, cioè mentre i giovani frequentano la scuola. Si tratta in questo caso di un periodo di formazione e insieme di impegno sul campo, che vede i giovani per due terzi del tempo in azienda e per un terzo a scuola.

Dunque nell’impresa non solo si lavora, si impara anche. 



Sì. In azienda c’è una figura di istruttore, un Meister (maestro, ndr) che ha capacità e titoli per formare i giovani.

Perché non riusciamo a dare all’alternanza scuola-lavoro una portata realmente formativa?
La spiegazione che si dà sempre è quella della nostra tradizione educativa, di stampo idealistico. E’ una diagnosi che condivido. Croce e Gentile hanno avuto tanti meriti, ma anche il demerito di aver privilegiato le materie umanistiche, l’astrazione e la teoria a discapito della scienza, della tecnica e della manualità. E’ la stessa cultura di fondo che ha spinto le nostre scuole tecniche a “licealizzare” i corsi di studio. Con effetti nefasti, perché perfino queste scuole hanno snaturato i loro programmi e hanno perso i rapporti con le imprese o li hanno molto scarsi.

La nostra tradizione culturale è l’unico elemento penalizzante?
No, ce n’è un’altra altrettanto importante. In Italia abbiamo avuto una forte dialettica sociale e politica che ha contrapposto il mondo del lavoro e quello dell’impresa, visto troppo spesso non come il mondo degli imprenditori, ma come quello dei “padroni”, di chi fondamentalmente sfruttava gli operai.

Non crede che ancora oggi ci sia una cultura sindacale rimasta ferma a quella contrapposizione?
No, non credo: la lotta di classe è per fortuna storia passata. Anzi, per quanto riguarda l’education anche la sinistra, non quella estrema ma quella riformista, ha ormai rotto la storica barriera tra scuola e lavoro. Nella Buona Scuola che il governo ha in mente si prevede un 20 per cento del tempo da passare in azienda per gli ultimi anni degli istituti tecnici e professionali.

Non sono poche 200 ore?
Sono poche ma è un inizio: finora eravamo a zero. Applaudiamo l’avvio di un processo finora impensabile. 

Dal vostro rapporto emerge che la separazione tra mondo dell’istruzione superiore e mondo dell’impresa non è senza conseguenze per i mali di cui soffre il nostro sistema universitario.
Assolutamente sì: l’università italiana, fino ad alcuni anni fa, è sempre stata un’agenzia formativa prevalentemente accademica. Fino a pochi anni fa, dopo la scuola gli studenti italiani avevano solo l’alternativa tra andare subito a lavorare o impegnarsi per 4 o 5 anni in una università accademica. Anche per questo l’Italia ha metà laureati rispetto ai paesi più avanzati. In questi paesi invece, e segnatamente in Germania, c’è sempre stata una ricca offerta di istruzione superiore professionalizzante e terminale (2 o 3 anni) da cui escono giovani quadri che trovano presto impiego e sono utilissimi alle imprese di tutte la dimensioni.

Ora in Italia ci sono gli Its.
Alla buon’ora. Sono il risultato del grande lavoro fatto da Gianfelice Rocca quando era vicepresidente di Confindustria. Rocca è riuscito a convincere il governo a sperimentare questa novità. Solo che sono pochi, sono piccoli (per ora solo 7000 giovani), una briciola a cui bisognerebbe dare una forte consistenza di risorse, di continuità e di flessibilità.

Se spendessimo di più nella scuola le cose andrebbero meglio? 

Più risorse fanno sempre bene, ma nel nostro caso si tratta soprattutto di spenderle riducendo i tanti sprechi che derivano da una organizzazione centralistica. La soluzione sta nel dare una forte autonomia alle singole scuole nell’ambito di budget prefissati, affinché le utilizzino meglio, al seconda dei contesti. La spesa per studente della scuola primaria italiana supera del 15 per cento quella della Germania, e anche nella secondaria è un po’ più alta. I test Ocse-Pisa collocano la Germania, su 60 paesi, mediamente al sedicesimo posto (sopra la media), l’Italia al trentaduesimo (sotto la media). Se dipendesse dai soldi, gli italiani dovrebbero essere più bravi dei tedeschi. E invece.

Perché non è così?
Perché in Germania i docenti sono pagati molto meglio (hanno gli stipendi di gran lunga più alti d’Europa), hanno un percorso e una selezione per diventare insegnanti molto più severe del nostro. Inoltre, noi abbiamo un docente per 12 studenti, in Germania il rapporto è di 1 docente ogni 15 studenti. Questa differenza di tre punti è enorme: significa che, a parità di studenti, abbiamo circa il 25 per cento di docenti in più. Il confronto con la Germania dimostra che noi abbiamo troppe posizioni di lavoro e ci mancano le risorse per pagare meglio i tanti di questi che valgono e si impegnano di più.

E pensare che il governo vuole assumerne altri.
Appunto. Se i soldi per la scuola servono a pagare più posti di lavoro, mal selezionati, non facciamo altro che moltiplicare i mali del nostro sistema. Se invece i soldi in più servono a dare riconoscimenti ai migliori presidi e ai migliori insegnanti, allora sono spesi bene. Per la prima volta, il progetto Buona Scuola prevede di premiare il merito. Se vuol dire dare uno stipendio migliore ad un 20-30% di insegnanti (mentori o quadri organizzativi), è la carta vincente. 

Torniamo all’alternanza scuola-lavoro. Cosa dovrebbe fare il governo?
Sarebbe già ottimale se desse risorse adeguate a quello che la Buona Scuola prevede: far passare in azienda almeno 200 ore negli ultimi tre anni ai giovani che frequentano scuole professionali e tecniche, accompagnati da insegnanti di scuola che vadano nelle aziende insieme ai giovani. Poi, avremmo bisogno che le nostre scuole tecniche tornassero all’antico, a come erano fino agli anni 70: ben collegate alle imprese del territorio, con presidi ingegneri (o simili), con bravi imprenditori anche all’interno dei consigli di istituto, ma anche con manager di impresa impegnati nella docenza.

(Federico Ferraù)