Nella discussione sulla “Buona Scuola”, un punto sul quale si è vista una larga convergenza di consensi è quello che ruota intorno alla necessità di uno stretto rapporto tra scuola e mondo del lavoro, ed in particolare al nodo dell’alternanza scuola-lavoro all’interno dei percorsi formativi secondari. L’esperienza delle scuole e dei ragazzi conferma l’interesse di questi ad un contatto vivo con la realtà del lavoro.
Il tema è molto ampio e può essere affrontato da diversi punti di vista. Due aspetti credo che vadano comunque tenuti presente: il primo potremmo definirlo di carattere culturale, il secondo politico-organizzativo.
In questi mesi, talvolta si sono sentite — in certi dibattiti tra studenti durante le occupazioni delle scuole o in certe assemblee di docenti — posizioni critiche che considerano alternanza e apprendistato come forme mascherate di sfruttamento e avvio al precariato; si tratta di giudizi che nascono certo da posizioni ideologiche che considerano la scuola il luogo della formazione dell’uomo, del cittadino; l’azienda, l’impresa, invece, sarebbero il luogo dove si lavora (e spesso si è sfruttati).
E’ un punto sul quale vale la pena soffermarsi, perché potrebbe celare comunque un equivoco. Anche nella Buona Scuola del governo, infatti, si legge che “serve rafforzare l’apprendimento basato su esperienze concrete di lavoro”. È vero, ma in questo nesso c’è molto di più: il mondo del lavoro non può più essere interpellato solo per la sua possibilità di “far fare esperienza”, non è sufficiente individuare in queste collaborazioni la modalità per colmare — e va certamente colmata — la distanza che esiste tra la scuola e l’impresa, e che genera spesso tempi lunghi nella transizione dallo studio al lavoro.
Il punto centrale è che dobbiamo introdurre i ragazzi a tali esperienza come opportunità educativa, per poter far scoprire che c’è una vera e propria “cultura del lavoro”. Si tratta quindi di fare un salto non tanto quantitativo, ma di tipo qualitativo, culturale, nella concezione stessa e nel valore che si intende dare a questo tipo di esperienze. Spesso infatti si sottolinea come i programmi scolastici non siano “allineati” alle esigenze delle aziende, e questo è vero. Ma credo che questa distanza non sarà mai colmata del tutto e non è corretto neppure inseguire questa meta: infatti se pensiamo ai mutamenti rapidi — nelle produzioni, nelle tecnologie, nelle strategie imprenditoriali, nelle organizzazione stessa del lavoro — è evidente che la scuola non può e non deve rincorrere l’impresa; compito della scuola rimane quello di educare istruendo, per mettere in grado i ragazzi di affrontare questa realtà mutevole.
Ma in questo percorso diventa decisivo avvicinare i ragazzi al mondo del lavoro dal quale possono attingere competenze professionali, ma soprattutto cogliere qualcosa di nuovo per loro, appunto la cultura del lavoro. Spesso i ragazzi lo raccontano: sono andato pensando di poter “applicare” le conoscenze che avevo appreso a scuola … e poi mi sono trovato di fronte a clienti, datore di lavoro, altri dipendenti, problemi, situazioni impreviste … e mi sono accorto che …
Così i ragazzi iniziano a dare spessore a parole come attenzione, impegno, dedizione, puntualità, precisione, volontà, lavoro di squadra, adattabilità, capacità di ascolto e di risposta, studio, capacità organizzativa, di comunicazione, di cui spesso hanno sentito parlare, ma che forse non hanno mai comprese — nel senso di fatte proprie — davvero. E ci si accorge che queste “competenze sociali” fanno la differenza.
E’ sempre più evidente, inoltre, che l’elevata disoccupazione giovanile è anche il risultato di un grave disallineamento tra profili in uscita dal sistema formativo ed esigenze delle imprese e più in generale del mondo del lavoro. Tutto ciò è dovuto anche al modo in cui i giovani arrivano a decidere dove e in cosa investire per la loro formazione. Per questo, occorre creare dei collegamenti capaci di mettere i giovani in condizione di arrivare al termine della loro formazione avendo una migliore comprensione del mondo (del lavoro), e un bagaglio di esperienze più solido e tale da aumentare significativamente le loro possibilità di impiego, o di auto-impiego. Esiste un rischio dispersione che va assolutamente contrastato. C’è quindi una ulteriore sottolineatura di carattere educativo che non può essere sottaciuta: l’esperienza di alternanza è spesso occasione per maturare quella competenza, che a livello europeo viene definita “educazione all'(auto)imprenditorialità e alla cultura d’impresa”, per sviluppare cioè la propensione al rischio e lo spirito di iniziativa
C’è un secondo aspetto. La domanda che bisogna porsi è: quali sono le condizioni perché possa avvenire una vera esperienza? Certamente a livello normativo vanno garantite alcune condizioni organizzative. Considerando che il sistema italiano è assai diverso da quello di altri Paesi (per cui il sistema “duale” tedesco difficilmente è importabile, almeno nel breve periodo) è necessario porre il tema della capacità della scuola di collaborare con i diversi attori del contesto imprenditoriale e produttivo, ma questo non può che avvenire in una condizione di autentica autonomia delle scuole.
Occorre porre dei criteri generali (ad esempio le 200 ore) ma è opportuno assicurare alle scuole la flessibilità organizzativa nell’ambito della propria autonomia, altrimenti i tempi e le modalità della scuola non potranno mai adeguarsi ai tempi e all’organizzazione dell’impresa.
Un altro aspetto è la necessità che questi percorsi abbiano protocolli concordati tra scuole e aziende (da sottolineare l’importanza in certi contesti di presenza di piccole imprese industriali e artigiane, di accordi con le associazione di categorie piuttosto che con singole realtà) con certificazione delle competenze acquisite che documentino il percorso svolto.
Infine, se si indica l’alternanza come elemento su cui si possono e si devono fare investimenti, è chiaro che se ne devono trarre conclusioni generali rispetto alla formazione delle figure professionali della scuola: non basta la preparazione accademico/disciplinare dell’università, e forse nemmeno l’aggiunta della sensibilità didattica delle associazioni professionali e delle scuole “autonome”, ma si può pensare anche al coinvolgimento delle aziende. Pertanto è evidente che il profilo professionale del docente si debba arricchire e si possano anche individuare diverse professionalità, tutte concorrenti all’educazione: il tutor, il progettista, il coordinatore di percorsi in alternanza, il docente frontale, l’orientatore, eccetera. Non si tratta di “funzioni” amministrative aggiuntive, ma di veri e propri “mestieri” educativi diversi da quello dell’insegnante.
Basterà lo spazio dell’organico funzionale?