Il tormentone sul fatto che in Italia si diano troppi compiti ogni tanto riappare. Tipicamente succede intorno alle vacanze, e c’è del giusto se pensiamo che “compito per le vacanze” è un ossimoro. La vacanza deve servire letteralmente per di-vertire, per introdurre una pausa che ci sposti dalle attività ordinarie, dandoci tempo di riflettere prima di ricominciare. La sua dimensione sta nel fatto che manca la componente dell’obbligo a svolgere un’azione, dovrebbe subentrare quella volontaria del piacere che viene dal “fare” per soddisfare un desiderio. Se no, non serve né la vacanza né il compito (a meno che non si tratti del debito estivo, ma quello ha una sua logica nel fatto che dovrebbe essere eccezionale, e non la regola).



Il discorso è diverso per l’esercizio quotidiano svolto nei ritmi del tempo ordinario, per così dire. Paradossalmente è proprio nel fatto che la scuola abbia un senso e si creda in quel che si fa, che dovrebbe nascere il bisogno di non smettere quando suona la campanella. Se una cosa ci appassiona, se non vediamo l’ora di tornare a casa per poterci immergere, lì non ci pesa fare esercizi. Il giovane chitarrista, che scatena gli ormoni del suo pubblico se suona la Fender coi denti o dietro la schiena, ha motivazioni più che sufficienti per esercitarsi ripetendo mille varianti dello stesso singolo gesto. La stessa cosa possiamo dirla per gli sportivi. Lo sai che il genio di Hendrix non si può comprare, o che quasi nessuno diventerà Oerter o Louganis; ma se in quel che fai vedi uno scopo, noia, fatica e sudore dell’esercizio sarai tu stesso a cercarli.



Qui mi viene una prima riflessione. Questi esercizi, che hanno lo scopo di perfezionare una tecnica, degli automatismi, devono per forza avere una componente ripetitiva. Se torniamo al dibattito tra Popper e Lorenz circa i “tre mondi” della conoscenza, l’esercizio fisico sull’attrezzo (o quello mentale sullo sviluppo di polinomi o sulla traduzione) è quello che serve a trasformare una azione razionale e imposta, tutt’altro che innata, nel comportamento “istintivo” e spontaneo caratteristico del “mondo uno”. E che certe azioni debbano diventare automatiche è un’esigenza che vediamo in ogni cosa. Non mi sentirei sicuro se gli autisti che viaggiano intorno a me sulla strada non avessero interiorizzato, con la continua ripetizione, attività assolutamente non innate come muovere il volante e i piedi con sufficiente rapidità in base alle circostanze esterne. 



Lo sappiamo (dovremmo sapere?) che i nostri studenti, le nostre vittime, sono in quella fascia d’età in cui biologicamente si concentrano la costruzione e l’affinamento di tutte le strutture, tanto dei muscoli e dei tendini quanto delle sinapsi neurali. Faremo loro un gravissimo torto se non sapessimo indurli a una adeguata quantità di esercizi, di vario genere, proprio quando è il momento più naturale per sviluppare la forza, l’agilità e la durata dell’impegno. Purché la cosa venga accettata e ricercata, non sentita come una imposizione estranea.

Nel commentare a caldo l’articolo di Daniela Notarbartolo avevo però scritto “ogni cosa ha senso se ha senso”. Pagato l’omaggio a Catalano, intendo dire che il senso sta in chi assegna il compito, prima che in chi lo esegue. Nel sapere e nel saper dare una motivazione e una gratificazione al fatto di dover impegnare una certa fatica. 

Una seconda riflessione riguarda allora il concetto del gioco, che la natura ha inventato proprio per stimolare questi meccanismi nelle fasi dello sviluppo che portano alla maturità. Inclusi ovviamente i giochi mentali. Quelli che richiedono il confronto simmetrico con un partner, come gli scacchi o lo scopone, o quelli con cui ti confronti asimmetricamente con un problema assegnato da qualcuno che non conosci. All’evoluzione di una cosa strutturalmente artificiosa come il cruciverba, Paolo Bacilieri ha recentemente dedicato una deliziosa graphic novel, FUN: a che tipo di bisogno risponde, che tipo di soddisfazione produce l’essere capace di concludere il Bartezzaghi in meno di un quarto d’ora? O, più ancora, passare il tempo a svolgere degli esercizi topologico-numerici come il sudoku o il cubo di Rubik (dei videogiochi parliamo un’altra volta)? Eppure sono attività assolutamente più “inutili” della maggior parte degli esercizi che può assegnare l’insegnante, pur non essendo necessariamente meno impegnative, anzi. 

Paradossalmente, la differenza tra il meccanismo del gioco (che non è uno scherzo) e quello del compito da svolgere a casa sta nel fatto che chi propone il gioco o l’esercizio ci creda o meno, e qui spesso è la scuola che perde il confronto. Perché è difficile credere nella validità di una fila di esercizi che l’insegnante assegna solo “per fare vedere quanto è serio”; sembra incredibile, ma nel 2015 ci sono ancora famiglie che valutano la qualità di un docente dalla quantità di esercizi che assegna! Il compito richiede di essere concepito in funzione del livello, delle attese, dell’attualità di chi lo deve svolgere, del tempo che si prevede possa richiedere: che angoscia sentir dire “uso il libro solo per dare gli esercizi”… almeno le riviste di enigmistica cambiano le definizioni ogni settimana! Poi, deve essere risolto e verificato insieme, cercando di capire le difficoltà incontrate, creando stimoli per andare oltre; non semplicemente controllato di sfuggita, con uno sguardo svagato al quaderno, visto che tanto “non c’è tempo”. Se no, lasciamo perdere.

Citavo un titolo di Brian P. Coppola, il chimico americano che alcuni anni fa aveva vinto il premio come miglior docente d’America: “do real work, not homework!” — nel senso di svolgere un lavoro che sia un confronto problematico con la realtà, non con uno schema predefinito di un esercizio “che deve venire”. Lo spunto per il lavoro può nascere da una situazione sperimentale, concreta (mi importa relativamente se vogliamo parlare di “problem solving”, di “case analysis” o di qualche altra formuletta, e non sto pensando al solo ambito scientifico-tecnologico, in cui la cosa sembra apparentemente più semplice). 

La cooperazione tra teste differenti, che non riproducano uno schema esecutivo obbligato (“ah, questo si faceva così”), può servire a individuare non solo la migliore tra possibili alternative, ma anche qualche idea originale che sta al docente cogliere e valorizzare. 

Si fa molta retorica (e molte scartoffie) sul tema dei disturbi dell’apprendimento e dei bisogni educativi speciali: ma se i compiti sono commisurati a un’attività concreta che coinvolge personalmente il lavoro di ciascuno, allora diventa possibile anche proporre esercizi realmente su misura per le capacità e le attitudini di ogni individuo. Certo, si fa fatica: non è esagerato dire che assegnare e correggere un buon compito dovrebbe richiedere al docente un tempo confrontabile a quello che impiegherà lo studente per svolgerlo. Ma viene a cadere, o perlomeno si attenua, la polemica sul “quanto tempo devi lavorare a casa”. 

Una piccola considerazione personale: quest’anno sto impiegando per la prima volta in modo sistematico il meccanismo dell’assegnazione dei compiti e dei materiali di studio, e la successiva restituzione, attraverso una piattaforma informatica. E’ presto per valutarne il risultato, ma di certo osservo dei cambiamenti nell’atteggiamento di molti studenti. E anche nel mio, il che non guasta.