Quarant’anni orsono, con l’avvio dell’anno scolastico 1975-76, entrarono a pieno regime i primi consigli scolastici eletti nel tardo inverno di quello stesso 1975. I genitori, gli studenti delle scuole superiori e i rappresentanti del personale amministrativo si sedettero a fianco dei docenti e dei dirigenti scolastici (allora direttori didattici e presidi) per “partecipare” alla vita scolastica. Per la prima volta dall’unità d’Italia le scuole aprivano le porte alle famiglie e riconoscevano uno spazio di “agibilità politica” (come si diceva allora) alla componente studentesca che cominciò a fruire della possibilità di tenere assemblee e riunioni autorizzate. Con qualche ottimismo ci fu chi parlò di una scuola che passava dallo Stato alla società.
Questa scadenza — passata finora quasi inosservata — offre l’occasione per qualche riflessione sulla faticosa e ancora incompiuta transizione verso l’autonomia scolastica.
Le nuove norme sull’apertura della scuola alle famiglie erano parte di un complesso provvedimento legislativo del 1973, attuato l’anno seguente attraverso la messa a punto di alcuni decreti delegati. I tre più importanti prevedevano la costituzione, per l’appunto, dei consigli scolastici e di distretto, la definizione di un nuovo stato giuridico per gli insegnanti e la creazione di appositi Istituti di ricerca e sperimentazione (gli Irrsae, oggi Irre).
Si trattava, detto in breve, di una riforma che rispondeva a varie esigenze emerse sia dalla contestazione giovanile sia da porre in relazione a un’idea di scuola che stava irreversibilmente transitando verso l’impianto cosiddetto della “scuola di massa”. La scuola si apriva (moderatamente) ai contributi della società civile attenuando (ancor più moderatamente) il monolitismo ministerialista anche mediante la possibilità di sperimentazioni didattiche gestite dalle scuole stesse.
I consigli di circolo e di istituto non erano veri e propri organismi di governo e neppure di gestione, ma rappresentavano comunque un’innovazione interessante. Imponente fu la partecipazione alle prime votazioni scolastiche con percentuali di votanti mai più raggiunte in seguito: oltre il 70% tra genitori e studenti, quasi l’85% tra il personale scolastico. Per settimane, per non dire mesi, sui maggiori organi di informazione si parlò del futuro della scuola e dei possibili rapporti con la vita sociale, culturale, produttiva. I lettori più anziani certamente ricordano le grandi attese che accompagnarono questo tornante della vita scolastica.
La realtà fu tuttavia più severa delle speranze. Le scuole faticarono ad accogliere le novità potenziali; i genitori a loro volta poco alla volta si disinteressarono dei consigli scolastici perseguendo il proprio “particulare”, la partecipazione al voto e alla vita scolastica fece registrare una rapida e brusca caduta, i consigli vivacchiarono alla meno peggio, i distretti furono liquidati dopo averne constatato il fallimento (un vero peccato perché adesso con la costituzione delle reti di scuole avrebbero potuto rappresentare un interessante punto di riferimento).
Nonostante i limiti e l’incerto procedere la prima pietra verso la futura autonomia era stata comunque sistemata.
Quindici anni più tardi, nel 1990, si compì un ulteriore e importante passo, ponendo un altro tassello significativo. In occasione della Conferenza nazionale della scuola, con una relazione che merita rileggere ancora oggi, Sabino Cassese sostenne che l’istruzione era una funzione civile, non statale. Fermo restando gli obblighi dello Stato a provvedere al suo funzionamento, occorreva perciò riconoscere a ogni scuola il diritto all’autonomia scolastica, organizzativa e finanziaria, compresa la diretta assunzione dei docenti e la possibilità di stipulare accordi con privati.
Si cominciò da quel momento a parlare non solo di “partecipazione”, ma di “autonomia scolastica” e, contestualmente, di processi valutativi che tenessero sotto controllo il sistema, immaginato sganciato dalla sorveglianza amministrativa del ministero. Nel 1992 apparve la prima edizione degli indicatori Ocse sull’educazione e si cominciò anche da noi a pensare alla messa in campo di rilevazioni ad ampio spettro sui livelli di apprendimento.
Le scadenze successive sono più note perché più vicine. Nel 1997 la legge n. 59 all’art. 21 dispose che l’autonomia delle istituzioni scolastiche e degli istituti educativi si inserisse “nel processo di realizzazione della autonomia e della riorganizzazione dell’intero sistema formativo”, principio che si tradusse in norme operative con il regolamento del 1999. Dal 1° settembre 2000 l’autonomia scolastica fece il suo ingresso ufficiale. Nel 2001 si avviarono i primi “progetti pilota” in tema di valutazione degli apprendimenti, nel 2003 fu creato l’Invalsi.
Poco più tardi il ministero della Pubblica Istruzione in collaborazione con quello dell’Economia pubblicò il Quaderno bianco sulla scuola (2007) documento di largo impatto, in specie in materia di valutazione. Nel frattempo le rilevazioni Ocse-Pisa e Invalsi cominciarono a diventare familiari (e contestate) nelle scuole. Il resto è cronaca degli ultimi anni.
Questa breve rassegna suggerisce alcune riflessioni. La prima riguarda la lentissima maturazione del principio di autonomia, prima, e di valutazione, poi, sempre in bilico tra vigilanza ministeriale e approcci consuetudinari, tra caute aperture e tentazioni neocentraliste. Il peso di una lunghissima tradizione ministerialista ha giocato (e gioca tuttora) un ruolo rilevante. Le radici storiche del centralismo infatti sono riconducibili non solo all’Unità, ma addirittura a quasi un secolo e mezzo prima e cioè all’organizzazione settecentesca del sistema scolastico piemontese codificato da Vittorio Amedeo II nel 1729.
In secondo luogo il passaggio dalla scuola dello Stato alla scuola affidata agli attori stessi dell’educazione scolastica si è incontrata (e scontrata) con le resistenze della burocrazia e con l’atteggiamento dei sindacati —il cui peso sarebbe ridimensionato da un sistema costituito orizzontalmente e non più verticalmente —, e con la pigrizia delle scuole, molte delle quali, tutto sommato, hanno continuato a vivere senza eccessivi problemi nei ritmi delle circolari ministeriali.
Non vanno sottovalutate, poi, le poderose spinte di chi resta convinto che l’istruzione debba restare prerogativa dello Stato in tutte le sue forme, comprese quelle gestionali, e che solo lo Stato sia in grado di garantire l’equità formativa. Non danno segni di cedimento, inoltre, le letture ideologiche del principio della libertà scolastica da parte di quelle forze politiche (in specie di sinistra) che temono che un’autonomia a regime totale costituisca la logica premessa per il passaggio del sistema scolastico alla logica cosiddetta “del mercato”.
Sulla scelta di un’ennesima dilazione del governo Renzi in materia di autonomia, nonostante tante dichiarazioni in senso contrario (emblematica la rinuncia a riformare la governance scolastica che resta quella della “partecipazione” degli anni 70), si possono formulare solo ipotesi e illazioni. A questo punto la domanda è quasi obbligatoria: quando sarà (se sarà) ripreso il discorso?
L’attesa del compimento dell’autonomia da parte di un’intera generazione di insegnanti fa pensare al romanzo di Buzzati, Il Deserto dei Tartari e al suo sfortunato protagonista, il tenente Drogo, che trascorre nel remoto forte Bastiani l’esistenza scandita da ritmi immutabili in attesa di un evento invano atteso per tutta la vita che arriverà quando, ormai anziano e malato, dovrà lasciare la fortezza.