Domenica mattina, nell’aula magna dell’università più antica del mondo, a Bologna, Julián Carrón ha lasciato un segno. Lo ha fatto con mille professori che venivano da tutte le parti di Italia per “aggiornarsi”, insieme a tanti altri collegati via internet da molti Paesi del mondo. Il tema era ampio, “insegnare oggi, nuovi contesti e nuove sfide”, e senza giri di parole è riuscito ad andare diritto al cuore del problema, rispondendo alle domande dei docenti. Davanti a ragazzi che sembrano non essere interessati a nulla di quel che si fa in classe, distanti, annoiati, demotivati, non abbiamo il coraggio di chiederci veramente perché  e finiamo per confondere il sintomo con la causa, identificando le origini del disagio con questioni di tipo etico o psicologico, e il loro io scompare. Rimangono solo i loro problemi, quelli per cui occorrono gli  specialisti, e noi come insegnanti non bastiamo più.

Quando con i ragazzi accade così, ci blocchiamo e finiamo per collaborare anche noi a far crescere la loro debolezza: non riusciamo più a stare da uomini davanti ad altri uomini. Mentre l’unica speranza per ripartire sarebbe guardarli in modo non ridotto, per quello che sono, al di là dei problemi che hanno o di quel che mostrano di essere. Se non c’è un “io” a cui rivolgersi, infatti, com’è possibile far lezione? Ma se non c’è un “io” che fa lezione e che desidera comunicare una vita dentro quel che insegna, per aiutare a sviluppare una vita, come sarà possibile far scuola per un docente? Scuola nel senso etimologico del termine, quello ricordato dal rettore Ivano Dionigi nell’introdurre Carrón: scholè, un luogo dove poter vivere il tempo dedicato a sé, alla formazione del pensiero critico, alla libertà. 

Tutte le difficoltà che ci possono essere a scuola non possono condizionare l’io di un insegnante fino ad impedirgli di vivere l’insegnamento così. Per questo la sfida lanciata da Carrón è interessante, ha dentro la forza del genio educativo di Luigi Giussani che negli anni Cinquanta, in un momento storico in cui era scontato che i ragazzi “seguissero” i loro docenti, aveva già visto l’ inizio di una pericolosa frattura tra forma e sostanza ed aveva fatto di tutto per “provocare” la ragione e  la libertà dei suoi studenti, per chiedere loro una verifica seria, un paragone vero con la propria esperienza, un giudizio critico. 

Dopo 20 anni, nella stessa aula magna in cui mons. Giussani aveva fatto una lezione magistrale sul tema “Il rischio educativo come creatore di personalità e di storia”, domenica, sono riecheggiate le stesse parole, con lo stesso accento. È vero, per insegnare non bastano tutti gli strumenti tecnici che possediamo e che è indispensabile avere. Conoscere implica qualcosa di più di tutti i nostri saperi specifici. 

In ogni conoscenza è presente l’io con  l’oggetto che si conosce. Per questo l’io è essenziale e se non lo provochiamo continuamente  a venir fuori in un dialogo ed in una verifica continui, sarà molto difficile continuare ad interessarlo. I ragazzi potranno rassegnarsi a ripetere delle cose, ma “loro” non ci saranno. Non ci sarà un “io” con la sua capacità fondamentale di cogliere i nessi, con il suo spirito critico, con la sua creatività, con la sua forza di cambiamento.

Nell’educazione vera, a scuola, sono intrecciati continuamente l’insegnamento di una disciplina e l’educazione di un atteggiamento umano di apertura. È questo il lavoro che ci è chiesto dentro il nostro  lavoro quotidiano. È un lavoro senza il quale insegnare può diventare una fatica insostenibile. Da soli è impossibile farlo, occorre uno sguardo che permetta di collaborare, senza scaricare le colpe gli uni sugli altri. Serve un dialogo continuo tra insegnanti, genitori, studenti. Una collaborazione nel “guardare” più che nell’agire. A volte sono i genitori che non si accorgono della situazione. Lo sappiamo benissimo come padri e madri e non dobbiamo dimenticarcelo quando ci rapportiamo ai genitori dei nostri studenti. Occorre dedicare tempo, coinvolgerli. Può sembrare inutile, ma è una modalità fondamentale per capire “chi” abbiamo di fronte. Questo clima è essenziale per i giovani professori. A scuola devono poter trovare un luogo in cui porre domande senza sentirsi giudicati, dove essere orientati, supportati nella verifica. Solo avendo percezione unitaria e il più completa possibile della realtà, infatti, potremo rispondere al  meglio, secondo i ruoli che abbiamo, a quello che la realtà chiede.

Lo diceva bene Hannah Arendt citata da Carrón all’inizio del suo intervento: “Una crisi ci costringe a tornare alle domande; esige da noi risposte nuove o vecchie, purché scaturite da un esame diretto; e si trasforma in una catastrofe solo quando noi cerchiamo di farvi fronte con giudizi preconcetti, ossia pregiudizi, aggravando così la crisi e per di più rinunciando a vivere quell’esperienza della realtà, a utilizzare quell’occasione per riflettere, che la crisi stessa costituisce”. 

La premessa è il desiderio di partecipare tutti all’avventura che è l’educazione. E il ruolo delle decine di associazioni che hanno deciso di promuovere questo convegno? “E’ un lavoro prezioso — ha detto Carrón —. Non riducetele alla rappresentanza, ma a luoghi di condivisione e sostegno reciproco”.