Nel 1958 la Cina dichiarò guerra ai passeri. Mao riteneva che questi uccelli sottraessero grano e riso all’agricoltura cinese e quindi contribuissero a spiegare la carestia continua delle campagne. Per sterminarli, la popolazione cinese fu mobilitata in massa: i contadini furono incaricati di sparare con i fucili e fare rumore (battendo pentole, vasi o tamburi) per spaventare gli uccelli e impedir loro di posarsi sugli alberi. I nidi vennero demoliti, le uova distrutte, i pulcini uccisi. Si stima che furono abbattuti otto milioni di passeri e altri uccelli. La quasi completa assenza di passeri dai campi permise però a locuste, cavallette e altri insetti di prosperare come mai prima. Il loro impatto sui raccolti fu ben più devastante e, nella carestia che seguì, morirono probabilmente circa 30 milioni di cinesi. 



L’episodio, raccontato da Sergio Savoia (Corriere del Ticino, 28 settembre 2009), mi è venuto in mente leggendo le recenti dichiarazioni del presidente del Consiglio Renzi che, in una recente intervista a Fabio Fazio a “Che tempo che fa” ha dichiarato che “nella legge di stabilità ci sarà una misura ad hoc per portare in Italia 500 professori universitari anche italiani. Un modo per attrarre i cervelli con un concorso nazionale basato sul merito: daremo anche un gruzzolo per progetti di ricerca”. Notizia confermata ieri dagli immancabili tweet del premier, nella conferenza stampa di presentazione della manovra varata dal governo.



Le buone intenzioni di Renzi sono certamente apprezzabili, ma andrebbero coniugate con una maggiore conoscenza del nostro sistema universitario, per evitare che si producano danni ben più rilevanti del beneficio si vorrebbe produrre. Affermare che il problema dell’università italiana si possa risolvere assumendo 500 professori che lavorano all’estero, finanziando le loro ricerche in Italia, vuol dire innanzitutto mortificare le numerose aree di eccellenza scientifica che già esistono nel nostro paese e che andrebbero, al contrario, valorizzate decisamente. I giovani e brillanti ricercatori italiani, che in questi anni hanno deciso di restare a lavorare in Italia — spesso a prezzo di tanti sacrifici — sarebbero fortemente incoraggiati a trasferirsi all’estero sapendo che, a questo punto, rischiano di non poter avere spazio nelle nostre università (magari per poi rientrare più avanti, forse, attraverso qualche programma di rientro dei cervelli). 



L’affermazione del premier mortifica inoltre le attività dell’Anvur (Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca) in quanto sostiene, indirettamente, che  il lavoro svolto in questi anni (a fronte di rilevanti investimenti finanziari da parte del Miur) non ha prodotto frutti adeguati in termini di miglioramento del livello della ricerca italiana. E ciò, proprio alla vigilia del nuovo esercizio di valutazione della qualità della ricerca, che  sarà avviato nelle prossime settimane. 

Non esistono soluzioni semplicistiche a problemi complessi. Le utopie generano sempre disastri, come insegna la storia.

Una rinascita del sistema universitario italiano — che è necessaria e si auspica da più parti — non può che partire dal riconoscimento, valorizzazione e promozione delle aree di eccellenza che già esistono in tutti i nostri atenei, da nord a sud. In questo contesto, sarebbe molto più utile e proficuo finanziare la ricerca di quei gruppi che promuovono reti di collaborazione e scambi scientifici stabili a livello internazionale, magari attraverso l’apertura di specifiche posizioni di ricercatore a tempo determinato o post-doc almeno biennali. Nel contempo, però, andrebbero rimosse quelle norme, incarnate da una  burocrazia ottusa e opprimente, che molto spesso rallentano e ostacolano l’attività di ricerca. Norme e burocrazia sconosciute, ed a volte incomprensibili, ai ricercatori che lavorano all’estero, cioè in contesti in cui si riconoscono valore sociale al lavoro scientifico e stipendi decisamente più alti, rispetto a quanto accade in Italia. C’è un problema culturale da affrontare preliminarmente e una volta per tutte, ed è quello di comprendere perché sempre più spesso brillanti ricercatori italiani decidono di andare a lavorare fuori dai confini nazionali. Altrimenti, ammesso che si riescano a trovare 500 professori disposti a trasferirsi all’estero in Italia, difficilmente resisterebbero a lungo nei nostri dipartimenti.