Nella serie televisiva Gomorra, che ho visto in dvd nel corso di un weekend lungo in cui avevo bisogno di staccare, la città di Napoli appariva in una luce gelida e feroce. Il film, ambientato e girato magnificamente anche nel ritmo, nei dettagli visivi, nelle luci, nei caratteri dei personaggi, mi ha tenuto incollata allo schermo, lasciandomi poi un’amarezza pensierosa.



Secondo la mia deformazione professionale da vecchia prof, ho notato che il “genere letterario” scarta dalla norma: non è un poliziesco perché manca l’investigatore e l’ordine sociale non trionfa; non è epico, o meglio lo è in massima misura, ma l’eroe è negativo e politicamente scorrettissimo (Gherardo Colombo potrebbe farci un corso completo); dovrebbe indurre a rifiutare il modello proposto, invece ci si affeziona alla maggior parte dei delinquenti (e si aspetta con ansia la seconda serie). In realtà è tragico. Il momento più terribile è quando il personaggio centrale, che all’inizio pare quello più sensato e interessante, si rivela come il più efferato: il cuore non ce la fa a condividere quel che lo vede fare (soprattutto quando in internet scopri che sono fatti veri). 



Spegni la tv con niente in mano. La beffa è la sigla che ti ha accompagnato per le 12 puntate, che canta martellando “Nuje vulimm’ na speranza pe campa’ dimane”, ma dove trovarla? Non nella “educazione alla legalità”, chimerica pezza sullo strappo profondo della collettività, non nelle istituzioni che evidentemente hanno fallito, non nel cuore dell’uomo immancabilmente attratto dal profitto affaristico, non nella ragionevolezza sopraffatta dal vortice del “così è e sempre sarà”: manca un’educazione della persona, manca il perdono, manca la resurrezione.



In questo nero ci sono però alcune figure “positive” del tutto laterali, solo delle comparse: le mamme. Indimenticabile l’urlo della mamma nel tentativo di strappare dalle grinfie del boss il figlio ancora piccolo, mentre quello invece ne è affascinato e non la ascolta più, e scappa con lui; e l’altra mamma che manda il figlio a Marsiglia dai parenti perché sopravviva fisicamente; e l’altra che piange nella sua solitudine, e viene affidata con sollecitudine affettuosa dal figlio maggiore, delinquentello emigrato, al fratello minore, delinquentello locale; infine la moglie che lascia in asso l’aspirante boss per sottrarre la figlia giovinetta alla mattanza.

E poi dicono che la mamma è il genitore A (o B)! Chi pensa che la mamma sia uno stereotipo dovrebbe chiedere al regista come mai ha concentrato lì quel poco che avanza del bene… Non sarà che la madre — anche le mamme adottive — è l’archetipo del luogo fisico in cui qualcuno ti vuole, dà letteralmente la vita, si sveglia la notte quando hai le colichette e non le pesa farlo (tutti “stereotipi”, veh! Ci sono anche le mamme-complici dei camorristi) … la sola persona per cui non smetti di essere unico e irripetibile neanche quando ti butti via e il nulla ti inghiotte (e così si sono salvati dalla disperazione alcuni ergastolani).

L’esperienza dell’avere una madre dovrebbe essere vista con maggiore riguardo da questa cultura stolta e menzognera: guarda un po’ che per capire come stanno le cose bisogna guardare Gomorra, la serie nera, dove la mamma sta come un punto di riferimento che resiste al nulla. Nel dibattito in corso, bisognerebbe parlare — molto laicamente — dei danni che l’indifferenza sessuale può produrre nella psiche di ragazzi e adulti. Dopo la liquidità delle relazioni familiari e la “scomparsa del maschio”, la liquidazione della madre avrebbe costi sociali in psicanalisti, neuropsichiatri, psicoterapeuti e psicologi, basta essere un docente per averne esperienza concreta. Qui c’è già uno stuolo di giovani che sta male, molto male, e gli dicono pure che fuori è tutto normale e che sono loro che hanno bisogno dello psicologo per “adattarsi”!