La scuola è iniziata da appena un mese e già il calendario è ricco di eventi: visite, mostre e incontri. Viene in mente subito il salmo 8: “Se guardo il tuo cielo, opera della tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissato, che cos’è l’uomo perché te ne ricordi, il figlio dell’uomo perché te ne curi?”. Una passione ad approfondire il tema dell’uomo ha proprio caratterizzato questo inizio d’anno al Liceo Frassati di Baruccana di Seveso, in particolar modo i due incontri che hanno coinvolto tutti gli studenti: il primo con Alfonso Fossà e la sua esperienza con Avsi (Associazione volontari servizio internazionale) nei campi profughi di Aleppo e il secondo con Farhad Bitani.
Farhad, classe 1986, afgano, figlio di un generale che ha combattuto prima contro l’invasore sovietico e poi contro i talebani, autore del libro L’ultimo lenzuolo bianco (Guaraldi) nell’estate scorsa era stato conosciuto da alcuni studenti del liceo durante una vacanza di Gioventù Studentesca in montagna. Colpiti dalla sua esperienza hanno fortissimamente voluto che anche tutti i propri compagni lo potessero conoscere e ascoltare la sua storia.
Una settimana fa questo desiderio si è realizzato: tutta la scuola, unitamente ai ragazzi delle due terze medie della Frassati, ha incontrato Farhad presso il salone dell’oratorio di Baruccana. 150 ragazzi dai 13 ai 19 anni, due ore di dialogo appassionante: un silenzio rapito di ascolto, il racconto, le domande e il grande applauso commosso di ringraziamento alla fine.
“Siete fortunati — ha esordito Farhad — perché vivete in un paese bellissimo, l’Afganistan è il cimitero del mondo”. Il suo racconto si dipana attraverso gli anni dell’infanzia che ha visto tanta violenza e cambi di condizione tanto repentini quanto impressionanti: potenza, povertà assoluta, di nuovo ricchezza e potenza, con l’unica costante della violenza. In un clima così il giovane Farhad viene cresciuto nella mentalità fondamentalista: “Ero obbligato a frequentare la scuola coranica e il Corano non lo potevo leggere nella mia lingua”. Partecipava agli spettacoli di morte e violenza, “Ma il mio cuore mi diceva che qualcosa non andava bene, anche perché mia madre mi diceva di non andare a vedere certi spettacoli (si riferisce alle lapidazioni pubbliche nello stadio), ma non conoscevo un altro mondo”.
Fino all’attentato subito ad opera dei nemici del padre, la grave ferita e la sorpresa di essere vivo. “Come mi sarei presentato davanti a Dio? Con gli occhi bassi. Perché Dio mi ha salvato la vita? Non potevo più vivere nella menzogna. I fondamentalisti vivono nella menzogna. Tante volte noi portiamo odio perché non sappiamo la verità. Ma ad ognuno di noi Dio ha messo nel cuore un puntino bianco che ci fa riconoscere cos’è il bene e che cosa è vero”.
Per scoprirlo, quel puntino bianco, Farhad è dovuto venire in Italia — mandato per frequentare l’Accademia militare a Modena — e incontrare degli “infedeli” — come gli hanno insegnato a guardare noi cristiani — che, con piccoli gesti di attenzione, cura e amore gli hanno aperto gli occhi. “Grazie al cristianesimo così come l’ho conosciuto in Italia ho potuto trovare la mia vera religione musulmana e scoprire che Dio è amore. Questo cambiamento mi ha fatto lasciare tutto quello che avevo, ricchezza, potere, per dedicarmi a raccontare la verità”. Così scopre il grande compito dell’educazione: “Se andiamo al fondo della violenza vediamo che lì c’è l’ignoranza, mentre l’educazione indica una strada”.
Le domande dei ragazzi si sono fatte incalzanti, sincere, senza sconti: sei cristiano o musulmano? l’Isis cos’è veramente?, il rapporto tra religioni, tra la religione e la violenza; e poi l’amicizia e la violenza e l’amore, fino al bruciante “Ma noi che possiamo fare?”. Non si tira indietro Farhad e ci indica un metodo: la risposta alle domande va trovata nell’esperienza di verità che ognuno può fare, è in quel puntino bianco che deve essere costantemente allargato attraverso l’educazione. “Questo è il contributo che i cristiani possono dare oggi — ci dice con semplicità — aiutando i musulmani a cambiare la mentalità”. Come è successo a lui che ora spende il suo tempo per poter raccontare a tutti che l’amicizia tra uomini di diversa cultura e religione non solo è possibile, ma è un’esperienza reale, e poter raccontare della bellezza di una scuola — come la nostra — che si prende veramente a cuore il bisogno di verità dei ragazzi.
“Nella parete della sala di casa mia ho appeso una grossa cornice con dentro gli articoli di giornale che raccontano la mia storia, il mio libro, quello che sto facendo. In mezzo ci ho messo la foto di don Giussani. Quando mi chiedono il perché di questo io rispondo che sono grato a don Giussani perché ha scommesso tutto sull’educazione del cuore e un uomo educato è veramente utile al mondo”.
È proprio vero quello che don Giussani faceva riecheggiare nei chiostri dell’Università Cattolica tanti anni fa: “Le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono felice il cuore dell’uomo”.