La parola latina trans significa varie cose tra le quali movimento, nel senso di moto a luogo: passaggio da un luogo all’altro, muoversi verso, ecc. Volendo indicare chi, mosso da una spinta inconscia — solo in seguito razionalizzata —, cerca con ogni mezzo di modificare o cambiare il proprio il sesso, con la parola trans-sessuale non si è di certo colto nel segno. Perché il transessuale fa piuttosto un giro su se stesso: un movimento a vuoto, per quanto cangiante possa apparire, che non si può assimilare al movimento verso l’altro, come ad esempio il “fare la corte”, che indica invece il movimento, non facilissimo, di un sesso verso l’altro e non l’eclissamento di un sesso da parte dell’altro; che avviene prima nel foro intimo del proprio sé, e poi, semmai, anche nel corpo. Questa legge del movimento dev’essere sfuggita a Michele Romeo, il trentottenne insegnate transessuale di matematica e fisica, che fa quel che può — come tanti altri — per arrangiare la sua vita e la sua carriera di precario dello Stato, della cui vicenda ha dato conto il Messaggero Veneto del 18 ottobre.



Romeo si presenta (a se stesso e agli altri) più come “staticista” che come movimentista, dal momento che sostiene, come ha spiegato agli studenti nella sua prima ora di lezione, di essere partito dall’ermafroditismo — che nell’uomo non esiste, salvo rarissime patologie — e lì di essersi fermato. Il prof. Romeo nel suo curriculum vanta due anni di dottorato a Monaco di Baviera, un passaggio in un prestigioso liceo di Trieste, una collaborazione con l’università triestina, nonché un matrimonio con una donna, tutt’ora in corso. Non mancano neppure le crisi di panico (angoscia), né il gusto infantile di vestire gli abiti della madre, successivamente mistificato come una condizione originaria ricevuta da “madre natura”, di cui (però) lo stesso Romeo ha ravvisato un inizio all’età di dieci anni (intervista a tgcom24, 17 ottobre). Da allora, da quando, trentatreenne, Romeo decise di fare outing passarono 23 anni, immagino non facili.



Non in tutte le scuole si studia, né tutti i manuali riportano che Pitagora, matematico di rango prima ancora che filosofo, attribuiva un sesso anche ai numeri: il sesso femminile al pari e il maschile al dispari. Il motivo va ricercato nella rappresentazione arcaica dei numeri mediante sassolini disposti su un piano, che rappresentano il pari con due colonne parallele libere nel mezzo e il dispari allo stesso modo, ma con l’aggiunta di un “membro” tra le due colonne. Più ancora che alla suggestione delle forme geometriche, la ratio dei pitagorici va rintracciata nel pensiero ingenuo-infantile che ancora alberga nelle filosofie dei presocratici, di attribuire a tutti gli esseri la caratteristica principale degli esseri viventi, in particolare di uomini e donne: i sessi, appunto. 



Tra i pitagorici e il piccolo Hans, il bambino di cinque anni colpito da un’importante fobia curato da Freud attraverso colloqui con il padre (1908) il passo non è poi così lungo, perché Hans attribuiva a tutti i gli esseri viventi il sesso; solo non entrambi i sessi, ma solo quello maschile. Nella sua indagine empirica sulla realtà Hans non poteva capacitarsi che alla sorellina potesse mancare il “fapipi”, quell’appendice così preziosa e particolare del suo corpo. Attribuire, allora, un “fapipi” anche al sesso femminile — con l’autorevole conferma della madre — non fu per Hans che una giusta (nel senso anche di equa) conclusione logica. La sua audace teoria fu chiamata dal Freud “monosessualità”, mentre l’apprensiva giovane madre di Hans, che pur di confermare in ogni modo il figlio non osò contraddirlo, si meritò invece l’appellativo di “donna fallica”. 

Tutta colpa di Freud allora, come lascia intendere il film di Paolo Genovese (2014), che allude a un Freud supporter di una sessualità “fluida e indifferenziata”?

Il maggiore dei lasciti che Freud ritenne di aver affidato agli amici del suo pensiero è l’Edipo, ovvero la legge universale della preferenza per l’altro dell’altro sesso, la quale si costruisce (o de-costruisce) nei rapporti. Si tratta comunque di una meta da raggiungere, di tappe (e difficoltà) da superare, di un’ambizione da coltivare: in questo risiede l’aspetto drammatico della vita sessuale di ognuno. Le famose tappe dello sviluppo sessuale (orale, anale, genitale) non sono meccaniche e il dato biologico di partenza (maschio-femmina) non denota un’immutabile condizione ontologica: l’essere non ha sesso. 

Nel suo ebraismo radicale e laico, il padre della psicoanalisi era esente da qualsivoglia forma di idolatria o di sudditanza nei confronti delle teorie omosessuali che già all’epoca scalpitavano, suggestionando l’opinione pubblica con la tesi (infondata) di una certa superiorità dell’intelligenza gay. Freud se n’è occupato nei suoi scritti su Leonardo Da Vinci e in altri.

Nella primavera del 1922 Freud ricevette la visita di Hans che non vedeva da dieci anni: si felicitò di trovarlo in piena salute “senza disturbi o inibizioni di alcun genere” e che avesse “attraversato indenne la pubertà”. Nota quest’ultima che mentre illumina un’epoca cruciale della crescita di ciascuno, presentandola come particolarmente insidiosa, suona anche come un invito alla prudenza a chi ha potere di agire su questa età. Prudenza senza la quale, come è noto, non si dà diritto. Così come senza onestà intellettuale non si dà insegnamento.